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Se Renzi finisce fuori dalla maggioranza la restaurazione è servita

Non ci è ancora dato sapere se lo scontro fra Matteo Renzi e il premier Giuseppe Conte si risolverà con una tregua in armi o con una crisi aperta

Alessandro Giuli
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Con Matteo Renzi fuori dalla maggioranza rossogialla, il quadro della restaurazione sarebbe finalmente compiuto. Non ci è ancora dato sapere se l'ordalia in corso tra il capo di Italia Viva e il premier Giuseppe Conte si risolverà con una tregua in armi o con una crisi aperta da maneggiare con cura in Parlamento. Ma un primo dato politico già si può banalmente apprezzare: a suo tempo descrivemmo su questo giornale come Renzi, per paradosso, pur essendo stato il motore principale del ribaltone estivo si stesse proponendo nella nuova maggioranza come un elemento destabilizzante, l'outsider da contenere e isolare per garantire all'operazione una sua coerenza e una durata necessaria a disbrigare le faccende più urgenti. Faccende che non erano e non sono certo riducibili al disinnesco delle clausole di salvaguardia o alla manutenzione dello spread: in gioco c'è la tenuta di un intero sistema di potere politico e finanziario, nonché la necessità di eleggere (nel 2022) un presidente della Repubblica che succeda a Sergio Mattarella senza mettere in discussione la linea di continuità europeista fin qui seguita dal Quirinale. A parole, l'ex premier sarebbe perfettamente compatibile con tale ruolino di marcia. Ma c'è almeno un ma. Per approfondire leggi anche: Renzi pronto a spaccare  Per indole e per calcolo strategico, Renzi esiste e resiste sulla scena soltanto come uomo di rottura con il Palazzo, foss'anche quello oggi occupato dai suoi ex colleghi del Partito democratico e dai malsopportati e troppo spesso irrisi pentastellati. Il giovane leader va a caccia di attenzione e di consensi in modo intemperante, com'è nel suo stile. Quando costrinse il neghittoso Nicola Zingaretti a seguirlo con il Pd sul terreno insidioso del cambio di regime agostano, Renzi aveva in mente di esercitare una sorta di golden share sul Conte bis. Ma i suoi compagni di strada facevano altri ragionamenti: una volta rimosso l'incubo Matteo Salvini da Palazzo Chigi, avrebbero lavorato con pazienza per liberarsi anche del secondo volto protagonista della stagione gialloverde: quello di Luigi Di Maio, il quale infatti ha da poco dovuto abbandonare il ruolo di capo politico del MoVimento Cinque stelle, ricoperto com'era da una caligine di scontento e delegittimazione. Adesso il terzo trofeo da appendere al muro, per l'appunto, sembra essere quello di Renzi. Inviso a Conte, mai troppo amato da Mattarella (che pure gli deve l'ascesa personale sul Colle), detestato senza riserve dalla nomenclatura democratica, il senatore di Scandicci è oggetto di una trama volta a privarlo di alcuni suoi effettivi e a sostituirlo con altri spezzoni erratici di Forza Italia. Per ora la manovra si è arenata davanti alla buona capacità tattica che ha consentito a Renzi di strappare un parlamentare a Leu e uno al Pd. Ma l'impressione generale è che un punto di non ritorno sia ormai stato valicato. Di là da un possibile disarmo bilaterale momentaneo (tutto da verificare, peraltro), è ragionevole pensare che gli inquilini della restaurazione vogliano completare l'opera imprimendo una sterzata netta in senso escludente. Del resto, non c'è restaurazione che non si sia servita con serpentina scaltrezza dei soggetti rivoluzionari inconsapevolmente responsabili di averle spalancato le porte. Detto questo, non bisogna trascurare il fatto che Renzi ha un'intelligenza politica notevolissima e commisurata alle ottime sue amicizie internazionali ancora vive e solidali. Ciò che a Salvini e Di Maio è mancato.

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