Devolution Il giorno dei «risorti»
Mancava solo quello. La devolution ha fatto resuscitare proprio tutti. Lui, Umberto Bossi, riapparso in Parlamento con tanto di moglie e figli come vuole la miglior fiaba a lieto fine: «E vissero felici e contenti». Ma è anche la giornata di Oscar Luigi Scalfaro, che alla fine protesterà perché rischiava di non votare per essersi impappinato con scheda elettronica. O di Emilio Colombo. E nei giorni scorsi anche di Giorgio Napolitano, tutti riapparsi quasi all'improvviso per esprimere il loro no alla riforma della Costituzione con la devoluzione. L'ex presidente della Repubblica, per esempio, dice che «battersi contro la riforma costituzionale del governo di centrodestra è un dovere civile e patriottico». Colombo, invece, che era anche lui componente della Costituente che scrisse la Carta sessant'anni fa, definisce la riforma «Irricevibile e claudicante». In realtà, a zoppicare, è soprattutto lui quando gli accendono il microfono. Inizia a dire qualche parola, poi si ferma come se volesse davvero rendersi conto se può dire quello che pensa. Il dibattito sulle dichiarazioni finali va avanti lento. Lento, lento, altro che rock. C'è una irrefrenabile ricerca della parola retorica, un continuo celebrare frasi fatte. Da un lato, quello dell'opposizione, il bla bla è sempre lo stesso: la morte della costituzione, ora funesta per l'Italia, funerale della politica. E dall'altra parte la maggioranza parla di nascita della nuova Italia e via discorrendo. Non a caso c'è chi, come An, ha già preparato i manifesti in cui la neo Costituzione viene raffigurata come un neonato. Mancano in aula le solite proteste con gli striscioni, ma quelle ormai sono prerogative dell'altro ramo del Parlamento. Qui l'aria è più seriosa, per questo i Verdi, con Sauro Turrone, invece del solito intervento scelgono il silenzio: un minuto di silenzio. Ma capita sempre così. Nelle dichiarazioni di voto finali trionfa l'ovvio. Ovvio che diventa anche noioso quando c'è, come in questo caso, la diretta televisiva: un po' tutti vogliono mostrarsi per quello che non sono e vanno alla ricerca della prolusione ad effetto, del vocabolo altisonante. Stavolta, non a caso, l'attenzione non è tra i banchi. Ma è lassù, nella tribuna. E quando la seduta è iniziata da venti minuti, arriva lui, si materializza Umberto Bossi, sorretto da due uomini, scortato dalla moglie Manuela e dai figli Roberto Libertà, Sirio ed Eridanio. Dietro di lui s'accomoda l'uomo che con lui mise per primo piede in Parlamento sotto l'insegna della Lega: Giuseppe Leoni, accompagnato dal direttore de La Padania. Bossi parla con i figli, i leghisti si eccitano come dei bambini. Maroni e Calderoli non ce la fanno più e scappano via, vanno su nel loggione. Maroni lo abbraccia, gli confessa nell'orecchio che un po' di paura ce l'ha. Poi tornano giù, arriva anche Fini che passeggia nell'emiciclo. Il ministro per le Riforme gli fa: «Dai, vieni anche tu su a salutare l'Umberto». E Fini: «Va bene, andiamo». E così anche il leader di An va in tribuna dal capo della lega. Diventa un pellegrinaggio. Ci va anche Carlo Giovanardi, che scivola sui gradini quasi calpestando Eridanio. Bossi farfuglia con la moglie, che siede alla sua sinistra con una camicia a quadroni stile campagnola che sembra quasi una tovaglia da pic nic. Impassibile, la signora Manuela non fa smorfie, non parla, non dice nulla. Andando via dimentica borsetta e cappotto, torna indietro e per sbaglio incrocia un nugolo di giornalisti che le chiedono: è contenta? Ma lei riesce a rimanere immmobile anche con tutti i muscoli della faccia tranne lasciarsi sfuggire un impercettibile movimento che potrebbe essere tradotto in un sorriso. Tutt'altro clima è quello che si vede in aula via via che scorrono i minuti e via via che s'avvicina il momento del voto. I leghisti si eccitano sempre più, il centrosinistra è sempre più lugubre, tocca a Schifani lo show finale con un bel saluto a Umberto Bossi che fa scattare tutti in piedi per un prolungato applauso. E lui, l'Umberto, per l'emozione rie
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