Giovani e periferie. Tra centro e margine c'è l'unico varco per il futuro delle città
Nelle periferie italiane, dove l’autobus passa quando vuole e i palazzi sembrano crescere più in fretta delle opportunità, i giovani vivono sospesi in un tempo che non coincide con quello del Paese. È una realtà fatta di strade che diventano campi da gioco, rifugi, arene e a volte trappole. Quartieri che parlano con un dialetto proprio, non sempre comprensibile a chi li osserva da lontano, ma che raccontano una tensione costante tra voglia di riscatto e rischio di smarrimento. I ragazzi di strada non sono una categoria a parte: studenti, apprendisti, disoccupati, figli di famiglie che barattano ogni giorno stabilità e precarietà. Crescono dentro un’architettura sociale che li guarda con sospetto. E l’integrazione, anziché essere un processo di incontro, diventa una corsa a ostacoli fatta di pregiudizi e attese disattese.
Sono ragazzi che assorbono il rumore del quartiere come fosse un battito cardiaco collettivo: il fruscio delle serrande abbassate, lo scatto delle moto che sfrecciano senza casco, gli schiamazzi sul campo di cemento. In questo paesaggio, la mancanza di spazi culturali e sportivi non è un semplice dettaglio urbanistico: è un vuoto simbolico che lascia i giovani soli davanti ai loro bivi. C’è chi trova nella strada un maestro severo ma efficace: insegna a cavarsela, a sopravvivere. E c’è chi invece vi finisce schiacciato, risucchiato da dinamiche più grandi di lui. La marginalità, quando diventa quotidiana, smette di essere percepita come tale: diventa normalità. E in quella normalità il disagio cresce invisibile, finché esplode in episodi che noi media raccontiamo con fretta e giudizio, dimenticando di chiederci come ci si è arrivati.
L’integrazione vera non può essere solo un progetto scritto su un bando, né un laboratorio di poche settimane. Richiede presenza, ascolto, continuità. Richiede adulti disposti a restare, non soltanto a passare: educatori, allenatori, insegnanti, volontari. Figure che sappiano costruire un ponte tra ciò che i giovani sono e ciò che potrebbero diventare. É proprio qui che nasce il nostro desiderio di raccontare, attraverso queste figure, un mondo di storie individuali che diventano monito collettivo. É qui che giovani e periferie si fondono in un unico, grande racconto. Che prova ad offrire alternative, non ad imporre modelli. Aprire possibilità. Dare strumenti, non solo regole. Creare comunità. Le periferie sono spesso raccontate come luoghi di mancanza. Ma possono trasformarsi in laboratori di futuro. Solo così il confine tra centro e margine smette di essere una ferita e può diventare un varco.
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