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Se il Pd teme il duello tra la borgatara Giorgia e la compagna Schlein

Tommaso Cerno
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L'idea più intelligente della gestione Schlein, il cognome sul simbolo del Pd e, perché no, un bel «scrivi Elly» sul modello di Giorgia Meloni non si può fare. La ragione non è affatto quella ufficiale e cioè il partito di comunità. Anche perché il Pd nacque proprio per mettere il nome del leader Veltroni sul simbolo, cosa che avvenne.E se poi non si ripetè fu perché non c’era un leader che ne avrebbe tratto beneficio. Ma Schlein poteva farlo.E il duello fra le due donne a capo di destra e sinistra sarebbe stato di sicuro per lei la strada più agevole per salire nei sondaggi e nei voti reali alle europee. Ma il Pd non vuole. Perché, in fondo, non vuole lei. Non accetta ancora che sia proprio l’ultima arrivata, sconfitta nelle primarie interne fra iscritti e poi incoronata da una piazza spuria, mescolata ai grillini, a portare la sinistra fino alle politiche del 2027. Fatevene una ragione.

Perché i vecchi arnesi Dem vivono ormai di rosicate. La prima: Giorgia Meloni ha avuto una idea intelligente e la scheda con il nome proprio, Giorgia, vale da sola la campagna elettorale. Al Nazareno dove di competizioni ne hanno fatte a centinaia lo sanno bene e non resta che attaccare, ripetere che la premier sia una accentratrice, che il nome del capo è roba di destra. Resta il fatto bche, fino a una settimana fa, Elly Schlein voleva fare la stessa cosa. E lo voleva talmente tanto da avere mandato avanti Stefano Bonaccini, il quasi-segretario che s’è visto soffiare la poltrona più alta dalla sua vice in Emilia Romagna. Peccato che quando il buon governatore in corsa per un seggio a Bruxelles ha lanciato l’idea (ripeto, la più intelligente degli ultimi anni) è scoppiata una tale polemica interna, capeggiata dai cattolici Dem, che di sentire parlare di Schlein non hanno alcuna voglia, da far ritirare tutti in buon ordine in un paio d’ore.Con l’affondo finale del padre nobile, Romano Prodi, che ha sconfessato la ex pupilla Elly per un nome che lui stesso aveva messo sui simboli di Arturo Parisi alle Europee perfino quando era già stato designato, pur informalmente, alla guida della Commissione Europea. Roba da far ridere i polli.

C’è, tuttavia, un secondo rosicamento: avere consegnato il Paese al centrodestra, per via elettorale, ha fatto sbroccare i mammasantissima del Pd. E, giorno dopo giorno, la rabbia per avere ingrippato il meccanismo per cui da Mario Monti in poi i progressisti (o quel che ne resta) stavano al governo chiunque vincesse prevale sull’impeto di costruire una nuova idea dell’Italia da opporre, sul campo di gioco costituzionale, cioè le elezioni democratiche, al centrodestra che governa. Soprattutto alla luce di un fatto politico: il tentativo di fare inversione a U in corsa, dopo la vittoria in Sardegna, per trasformare il progetto di un grande partito a vocazione maggioritaria in una federazione di simboli alleati è uscito di strada alla prima curva.

Per una ragione molto semplice: il processo post ulivista avrebbe bisogno di un leader post-prodiano. Cioè di un nuovo Prodi, che non esiste. Non perché Schlein e Conte non siano sulla carta due capi capaci, ma perché non c’è consenso su chi dei due debba farlo. E di questo il Pd si occupa. Non di battere la destra. Ecco perché il duello G contro E non ci sarà. Non perché la leader del Pd non fosse pronta, ma perché per i suoi cacicchi lo era fin troppo.

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