La camorra ai tempi di TikTok: il delitto Nappo e la cultura della violenza digitale
Un ragazzo di appena 18 anni ucciso a colpi di pistola mentre si trovava in piazza a Boscoreale, in provincia di Napoli. Due coetanei che si sono presentati in caserma per confessare il delitto. Ancora un caso di violenza giovanile che scuote l’Italia: è l’omicidio di Pasquale Nappo, incensurato di Scafati (Salerno), ritenuto però vicino agli ambienti dello spaccio di droga.
È stato ucciso da uno dei tre proiettili esplosi da Giuseppe Esposito, anche lui incensurato, 18enne, che viaggiava in sella allo scooter guidato dal 23enne Antonio Abbruzzese, entrambi residenti a Torre Annunziata. Il programma *Incidente Probatorio*, in onda sul canale 122 *Fatti di Nera*, si è occupato del caso, sul quale indagano i carabinieri del Nucleo investigativo del Gruppo di Torre Annunziata, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, che ipotizza uno scontro tra bande rivali.
Forse Pasquale non era il vero obiettivo del raid: probabilmente chi ha sparato puntava a spaventare uno dei suoi amici, con precedenti per spaccio di stupefacenti. Il fermo è stato convalidato dal giudice e i due giovani che hanno confessato il delitto restano in carcere.
Secondo la ricostruzione, Esposito avrebbe esploso almeno tre colpi di pistola in piazza Pace a Boscoreale, centrando con un proiettile sotto l’ascella il coetaneo Nappo, poi morto in ospedale per le gravi lesioni agli organi interni. Il tutto sarebbe nato dopo alcune liti e discussioni, forse maturate — secondo l’accusa — negli ambienti dello spaccio di droga. Ai due giovani detenuti è ora contestato il reato di omicidio volontario, aggravato dalle modalità mafiose e dalla premeditazione.
“Il problema è sicuramente culturale – ha detto il sociologo Marino D’Amore – ma se ci saranno connessioni con il contesto mafioso, lo diranno gli itinerari giudiziari. Nel gesto si vedono la bestialità e la mentalità camorristica: non è normale che due ragazzi vadano in giro con una pistola. Le conseguenze sono dispersione scolastica e criminalità minorile, senza dimenticare che questi giovani diventeranno adulti, ma sono cresciuti in quel deficit valoriale.
La cultura è un contenitore, può avere accezione positiva o negativa. Purtroppo, la cultura camorristica ha dei codici valoriali che parlano anche di questi gesti, di regolamenti di conti fini a se stessi. Anche presentarsi in caserma e costituirsi è riferibile a questo contesto: non aver paura delle conseguenze, rivendicare la responsabilità di un atto che ha una valenza camorristica. È un problema che deve essere affrontato dalle famiglie e dalle scuole primarie, ma va considerato anche lo stereotipo della territorializzazione di quanto accaduto. Nel racconto e nella narrazione superficiale e banalizzante, c’è troppo spesso sovrapposizione tra ciò che accade e i territori in cui avviene.”
Secondo Mary Petrillo, psicologa e criminologa, l’aspetto che emerge tra i giovani è anche “il fattore digitale, che ha un peso in contesti dove sono molto presenti le varie tipologie di mafie. Questi ragazzi imitano atteggiamenti di tipo mafioso, trasportandoli nel contesto dei media e dei social. In particolare, su TikTok vediamo sfide lanciate per difendere l’onore, per avere vendette di un gruppo rispetto a un altro.
In questi video si trasforma un attacco, un senso dell’onore sbagliato, in qualcosa di più grande. Dal punto di vista psicologico, vittime e killer sono intrappolati nell’immaturità: reagiscono con una rabbia iperattiva, dettata dallo stress sociale in cui vivono, e i social non fanno altro che amplificare questo fenomeno. Le mafie stanno utilizzando i social per reclutare i giovani, mandare messaggi e ‘pizzini digitali’. Si è creata una cultura della vendetta che infetta le nuove generazioni attraverso le tecnologie, fondamentali per loro.
Attraverso i social, le mafie inviano un messaggio di benessere basato su uno stile di vita sbagliato, e la musica contribuisce. Per un ragazzo che vive un disagio sociale e psicologico, crescere in una famiglia difficile può favorire il reclutamento anche tramite questi canali.”
Per la criminologa Linda Pontoni, a Napoli “c’è una forte componente culturale che porta a questi episodi di risposta violenta. Non è una questione limitata a quel territorio, ma riguarda tantissime altre città del Paese. Bisogna prevenire, agire prima: qui si parla di adolescenti che vivono un periodo fragile e delicato della vita, in cui si sviluppa il proprio io e il proprio essere.
Quando formano la propria individualità, sono come spugne. In un contesto culturale sbagliato, i soggetti più disagiati e reticenti ai rapporti sociali trovano rifugio in gruppi criminali dove si sentono accolti, visti e capiti, finendo per sposare valori distorti. È sempre complicato per una comunità accettare una cosa del genere: nessuno vorrebbe mai vivere simili situazioni, soprattutto in un territorio come quello napoletano.”
“Nei nostri territori – ha sottolineato Massimo Napolitano, referente di *Libera Torre Annunziata* – la linea tra criminalità organizzata e comune è molto sottile. Due ragazzi che viaggiano con una pistola e vogliono solo intimidire non possono che provenire da una mentalità camorristica, radicata nel territorio.
L’ultimo rapporto DIA descrive i clan presenti nell’area, e se vogliamo parlare di violenza e crimini minorili, gli ultimi dati del Ministero dell’Interno offrono un quadro inquietante: riguarda in particolare i ragazzi tra i 14 e i 17 anni che commettono reati. Siamo contrari all’aumento delle pene per i minori: servono più strumenti per contrastare e prevenire questi fenomeni.
Più scuola, più lavoro, maggiore assistenza sociale, anche dove la dispersione scolastica è in calo. In questo caso ci sono indagini in corso, ma può aver influito l’ambiente familiare, territoriale ed economico, non tanto i social.”
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