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Ghostare non è mitico... Il linguaggio che cambia tra parole nuove e vecchie espressioni che tornano

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Foto: Unsplash

S. A.
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“Questa cosa è cringe”, “ti scrivo in privato”, “mi ha ghostato”. Frasi come queste, oggi comunissime, sarebbero risultate incomprensibili solo pochi anni fa. Il linguaggio quotidiano cambia rapidamente e riflette in modo diretto le trasformazioni della società. Osservarlo da vicino significa leggere una mappa dei nostri comportamenti, delle nostre abitudini e delle relazioni che costruiamo.

Molti neologismi nascono dal mondo digitale. I social network hanno introdotto non solo nuove parole, ma nuovi verbi: postare, taggare, followare. Il lavoro ha fatto lo stesso, con termini come smart working, call, deadline, feedback. Queste parole rispondono a un’esigenza pratica: descrivere esperienze nuove in modo rapido. Spesso vengono adattate all’italiano, coniugate e declinate senza difficoltà, segno di una lingua viva e flessibile.

Accanto alle parole nuove, però, se ne affacciano altre che sembravano scomparse. Espressioni come “fare una telefonata”, “passare a trovare qualcuno”, “scrivere due righe” tornano nel linguaggio quotidiano, talvolta cariche di una sfumatura affettiva o ironica. Anche termini come “mitico”, “che storia”, “una volta tanto” vengono recuperati dalle nuove generazioni, spesso con un uso consapevolmente rétro.

Il confronto tra generazioni è uno degli aspetti più interessanti di questo processo. I giovani usano espressioni nate online che poi entrano nel lessico familiare: non è raro sentire genitori dire “questa serie l’ho binge-watchata” o “mi spoilererai il finale?”. Allo stesso tempo, parole tipiche del linguaggio adulto o anziano vengono adottate per gioco, trasformate in meme o in citazioni ironiche.

I media amplificano enormemente la diffusione delle parole. Una serie televisiva può riportare in auge un’espressione dimenticata; un video virale può lanciare un modo di dire che in pochi giorni viene ripetuto ovunque. I podcast, in particolare, stanno contribuendo a una maggiore attenzione al parlato, rendendo familiari termini più ricercati o regionalismi che escono dal loro contesto originario.

Un altro fenomeno evidente è la semplificazione. Alcune parole cambiano significato o si allargano, diventando contenitori emotivi più che definizioni precise. Termini come “ansia”, “trauma”, “iconico” vengono usati nel linguaggio quotidiano per esprimere stati d’animo o giudizi, anche in modo iperbolico. Non è necessariamente un impoverimento, ma una trasformazione del modo di raccontare l’esperienza.

Contrariamente a quanto si sente spesso dire, la lingua non si sta “rovinando”. Sta facendo ciò che ha sempre fatto: adattarsi. Ogni epoca ha avuto i suoi forestierismi, le sue mode linguistiche, le sue polemiche. Molte parole scompaiono, altre restano, altre ancora cambiano funzione.

Il linguaggio, in fondo, è uno spazio di incontro. Attraverso le parole cerchiamo di capirci, di riconoscerci, di appartenere a un gruppo. Ascoltare come parlano gli altri, senza giudizio, è un esercizio di curiosità culturale. Perché dentro le parole che usiamo ogni giorno c’è il racconto, in continuo movimento, del tempo in cui viviamo.

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