Marco Vannini, il tempo che uccide: i 110 minuti fatali e la gestione dei soccorsi
Era la notte tra il 17 e il 18 maggio 2015 quando la vita di Marco Vannini, ventunenne di Cerveteri, veniva spezzata da un colpo di pistola nella villetta di Ladispoli della famiglia della fidanzata, Martina Ciontoli. Il proiettile, partito dall’arma di Antonio Ciontoli, padre di Martina e sottufficiale dell’Aeronautica Militare, avrebbe potuto non essere letale. Tuttavia, a segnare il destino di Marco non fu solo la gravità della ferita, ma soprattutto i 110 minuti di ritardo nell’attivazione dei soccorsi, un lasso di tempo costellato da bugie, omissioni e scelte che hanno avuto conseguenze irreversibili.
Quella sera Marco era a cena con la famiglia della fidanzata. Dopo il pasto, mentre si trovava nella vasca da bagno, Antonio Ciontoli entrò nella stanza, mostrando a Marco due pistole. Improvvisamente partì un colpo che lo colpì al torace. Il proiettile attraversò il polmone e raggiunse il cuore, provocando una gravissima emorragia interna. Marco, ancora cosciente e in preda al dolore, iniziò a chiedere aiuto disperatamente, invocando la madre e supplicando di essere soccorso.
In casa erano presenti, oltre ad Antonio Ciontoli, la moglie Maria Pezzillo, i figli Martina e Federico, e la fidanzata di quest’ultimo, Viola Giorgini. Tutti assistettero alle condizioni sempre più critiche di Marco, ma nessuno decise di chiamare immediatamente i soccorsi. Anzi, la prima chiamata al 118 fu effettuata e subito annullata: all’operatore venne riferito che un ragazzo si era spaventato per un colpo d’aria. In sottofondo, però, le urla di Marco erano inequivocabili.
La ricostruzione degli eventi, emersa durante le indagini e i processi, è drammatica e lascia poco spazio ai dubbi. Dopo lo sparo, la famiglia Ciontoli si preoccupò di ripulire le tracce di sangue, nascondere la pistola e concordare una versione dei fatti che minimizzasse l’accaduto. Solo dopo circa un’ora venne effettuata una seconda chiamata al 118, ma anche in quell’occasione la gravità della situazione fu nascosta: si parlò di un “buchino con il pettine”, mai di un colpo di pistola. Nessuno, tra i presenti, ebbe il coraggio di confessare la verità ai soccorritori.
Quando finalmente i sanitari arrivarono, Marco era in condizioni disperate, quasi privo di conoscenza e con una emorragia interna ormai fuori controllo. Venne trasportato d’urgenza in ospedale, ma morì poco dopo il ricovero. La successiva autopsia confermò che, se i soccorsi fossero stati tempestivamente attivati e se i medici avessero saputo subito che si trattava di una ferita da arma da fuoco, Marco avrebbe avuto concrete possibilità di sopravvivere. Secondo le perizie, se fosse stato attivato un “codice rosso”, sarebbe potuto intervenire un elicottero con personale medico specializzato e Marco sarebbe stato trasportato in un centro di secondo livello, dove chirurghi toracici e cardiochirurghi avrebbero potuto salvarlo.
La gestione dei soccorsi da parte della famiglia Ciontoli è stata al centro di un lungo e complesso iter giudiziario. La Corte di Cassazione, nelle sue motivazioni, ha sottolineato come “la condotta omissiva fu tenuta da tutti gli imputati”, che per 110 minuti mantennero una “condotta menzognera e reticente”, nonostante la gravità della situazione fosse sotto gli occhi di tutti. La Cassazione ha ribadito che Marco Vannini non è morto solo per il colpo di pistola, ma soprattutto per il tempo perso, per le omissioni e per le bugie che hanno impedito un soccorso efficace e tempestivo.
Il processo ha portato alla condanna definitiva a 14 anni di reclusione per omicidio volontario con dolo eventuale. Mentre la moglie Maria Pezzillo e i figli Martina e Federico sono stati condannati a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario.
Un aspetto centrale della vicenda giudiziaria riguarda la cosiddetta “posizione di garanzia” degli imputati. La Cassazione ha evidenziato che l’incidente avvenne in un’abitazione dove erano custodite armi in violazione degli obblighi normativi e che Antonio Ciontoli, in quanto militare, aveva specifici doveri di soccorso. Marco, ancora cosciente dopo il ferimento, si affidò consapevolmente alle cure degli adulti presenti, che però scelsero di non agire nell’interesse della sua vita. La sentenza ha chiarito che la condotta di Antonio Ciontoli fu “caratterizzata da pervicacia e spietatezza”, anche nel nascondere quanto realmente accaduto, rendendo irragionevole ogni tentativo di difesa basato sull’errore o sulla sottovalutazione della gravità della ferita.
Il caso Vannini ha profondamente colpito l’opinione pubblica italiana, diventando simbolo di una giustizia inseguita a lungo e di una verità negata per troppo tempo. La madre di Marco, Marina Conte, non ha mai smesso di chiedere che venisse riconosciuta la responsabilità di chi, quella notte, ha scelto di non salvare suo figlio. La vicenda ha sollevato interrogativi sulla tutela delle vittime, sulla gestione delle emergenze e sulla necessità di una maggiore consapevolezza rispetto ai doveri civici e morali in situazioni di pericolo.
Le intercettazioni, le testimonianze e le ricostruzioni processuali hanno messo in luce la volontà della famiglia Ciontoli di tutelare sé stessa, anche a costo di sacrificare la vita di Marco. La scelta di mentire ai soccorritori, di nascondere la reale natura della ferita e di temporeggiare nella richiesta di aiuto sono state giudicate come elementi determinanti nella catena causale che ha portato alla morte del giovane.
I genitori di Marco Vannini, a 10 anni dalla scomparsa del ragazzo, saranno ospiti nella puntata di stasera di “Incidente probatorio”, in onda alle 21 sul Canale 122 del digitale terrestre e on demand sulla piattaforma streaming Cusanomediaplay.it.
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