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Usa, incriminato l'ex capo dell'Fbi Comey. Indagò Trump per il Russiagate

Ignazio Riccio
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Dopo anni di polemiche, inchieste politicamente motivate e attacchi contro l’allora presidente in carica, James Comey dovrà rispondere delle sue azioni davanti a un tribunale federale. L’ex direttore dell’Fbi è stato formalmente incriminato da un gran giurì federale della Virginia, con l’accusa di aver mentito sotto giuramento al Congresso e di aver ostacolato un’indagine parlamentare.
La decisione arriva grazie all’azione della nuova procuratrice del distretto, Lindsay Halligan, da pochi giorni alla guida dell’ufficio e nota per il suo rigore nel rispetto della legge. Una mossa che riporta il principio di responsabilità al centro della macchina federale.
James Comey non è un nome qualunque. È stato al centro di alcuni dei momenti più bui e divisivi della storia recente americana: dall’inchiesta sul server email privato di Hillary Clinton, gestita con discutibile discrezione, fino al ruolo chiave nel cosiddetto “Russiagate”, un’indagine che ha spaccato il Paese e che il presidente Donald Trump ha sempre definito una “caccia alle streghe”.
Nel 2017, Trump lo aveva licenziato dalla guida dell’Fbi, scelta poi rivendicata come necessaria per ripristinare trasparenza e correttezza istituzionale. Ora, otto anni dopo, le conseguenze delle sue azioni sembra stiano emergendo in sede giudiziaria.
L’atto d’accusa riguarda la testimonianza resa da Comey alla commissione Giustizia del Senato nel settembre 2020. In quell’audizione, l’ex direttore aveva negato di aver autorizzato la divulgazione di informazioni riservate ai media. Secondo l’accusa avrebbe mentito deliberatamente al Congresso cercando di ostacolare il lavoro dei parlamentari.
Il documento, composto da quattro pagine, è stato firmato dalla procuratrice Halligan, senza il coinvolgimento di altri alti funzionari del Dipartimento di Giustizia. Un dettaglio che, seppure abbia creato polemiche, per alcuni dimostra la determinazione della nuova guida dell’ufficio nel non lasciarsi intimidire dalle pressioni interne.

Comey ha reagito pubblicamente con un breve video postato su “Instagram”. “Non ho paura. Sono innocente. Ho fiducia nel sistema giudiziario federale”, ha detto. Parole prevedibili, ma che non cancellano le responsabilità che l’accusa gli attribuisce. E che soprattutto non cancellano un fatto emblematico: poche ore dopo la sua incriminazione, Troy Edwards – suo genero e procuratore federale nello stesso distretto – si è dimesso con una lettera secca, parlando di “fedeltà alla Costituzione”.Un gesto che, seppur simbolico, getta una luce ulteriore sui legami personali e familiari che hanno circondato per anni il potere giudiziario federale.

Il presidente Trump, da sempre convinto che Comey abbia abusato del suo potere per fini politici, ha commentato con soddisfazione la notizia: “Giustizia in America”, ha scritto su “Truth Social”. In un altro post, ha definito l’ex direttore dell’Fbi “una delle persone peggiori con cui gli Stati Uniti si siano mai confrontati”.

Secondo fonti vicine alla Casa Bianca, Trump aveva più volte espresso l’intenzione di ripristinare l’equilibrio istituzionale colpito da anni di manipolazioni e doppi standard. “Mi hanno messo sotto accusa due volte e incriminato cinque volte sul nulla. Ora giustizia dev’essere fatta”, avrebbe detto in un incontro con il ministro della Giustizia Pam Bondi, facendo riferimento non solo a Comey, ma anche ad altri esponenti della sinistra radicale come l’ex senatore Adam Schiff e la procuratrice di New York Letitia James.

Bondi – inizialmente prudente – avrebbe cercato di mediare, ma alla fine ha lasciato che la legge seguisse il suo corso. Il suo vice, Todd Blanche, altro giurista vicino all’amministrazione, aveva tentato di evitare lo scontro interno al Dipartimento salvando l’ex procuratore Erik Siebert, rimosso per far posto a Halligan. Ma, come ha raccontato un alto funzionario, “il presidente era determinato: non si trattava di vendetta, ma di responsabilità. E voleva che il sistema la riconoscesse”.

L’udienza preliminare è fissata per il 9 ottobre. E mentre si attende di conoscere l’esito del caso Comey, a Washington già circolano i nomi dei prossimi possibili destinatari di indagini federali: tra questi spicca John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale e oggi uno dei critici più accaniti del presidente.

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