I servizi segreti alleati dietro l'assassinio di Giovanni Gentile
Gli agenti avrebbero consentito l'omicidio agli antifascisti della «Ghirlanda fiorentina»
In una trasmissione radiofonica del 1989 in onore di Eugenio Garin, il filosofo Cesare Luporini, ex senatore comunista, ammise che in merito all'assassinio di Giovanni Gentile c'erano «cose che ancora non si possono dire». Un altro filosofo, Gennaro Sasso, che aveva ascoltato quelle parole, al tempo stesso inquietanti ed enigmatiche, si augurò che Luporini intervenisse per precisare. In modo che i posteri potessero sapere tutta la verità sull'agguato in cui era rimasto vittima il filosofo, il 15 aprile 1944, alle ore 13,30, di fronte alla sua abitazione a Villa Montalto, a Firenze. Ma non seguì alcun intervento chiarificatore da parte di Luporini, che pure aveva lanciato il sasso. A raccoglierlo è adesso Luciano Mecacci, uno studioso livornese che dopo essersi occupato per decenni di psicologia (anche come docente alla romana Sapienza), si è dedicato alla ricerca storica puntuale e documentata, scrivendo un'opera di estremo interesse, premiata al Viareggio di quest'anno nella sezione della saggistica e finalista al Premio Acqui Storia nella sezione scientifica ("La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile", Adelphi, pp. 528, euro 25). Mecacci sa che i riscontri obbiettivi sono pochi: il giorno, l'ora, il luogo dell'agguato, la macchina di Gentile guidata dall'autista Gastone Passadore ferma sulla strada in attesa che venga aperto il cancello della Villa, due giovani che si avvicinano come per chiedere un'informazione, il filosofo che si trova sul sedile posteriore e che abbassa il finestrino e loro che fanno fuoco. Gentile spira mentre Passadore cerca di raggiungere l'ospedale di Careggi. Questi i "fatti". E c'è anche il nome di uno dei giustizieri: il gappista Bruno Fanciullacci, successivamente catturato dai tedeschi, evaso, riacciuffato di nuovo e infine morto suicida in carcere il 17 luglio del 1944. Così come c'è la rivendicazione del delitto da parte comunista, attraverso un articolo pubblicato sul giornale clandestino "La nostra lotta", che plaude all'uccisione di quello che era considerato il nemico numero uno da abbattere. A partire dall'appello patriottico pronunciato in Campidoglio il 24 giugno del 1943, che richiamava tutti gli Italiani al dovere di stringersi intorno al fascismo, e a cui avevano fatto seguito, dopo l'8 settembre, l'adesione del filosofo alla Repubblica Sociale e i suoi continui interventi sulla necessità di una conciliazione nazionale. Insomma Gentile era la più pungente spina nel fianco della Resistenza e soprattutto di un PCI ben consapevole della concreta minaccia costituita da un monito pacificatore e patriottico lanciato da una voce così autorevole. E che, proprio per questo, poteva minare le ragioni della lotta antifascista. Ma torniamo all'agguato. Ebbene - e sia reso merito a Mecacci per la sua ricostruzione, ricca di documenti inediti, di puntigliose precisazioni, di testimonianze accuratamente vagliate soprattutto nei loro aspetti più contraddittori - ci troviamo di fronte a una matassa che è arduo dipanare. Né Mecacci pretende di farlo: diciamo piuttosto che ci propone gli scenari di un grande giallo storico-politico, argomentando sulle mille ipotesi investigative, sugli indizi, i depistaggi ecc., mentre ci si torna a interrogare sull'identità dei mandanti e dei giustizieri e su tutti i possibili "intrecci". E mentre sfilano gruppi di fuoco gappisti, informatori della polizia, doppiogiochisti, fascisti estremisti, agenti segreti inglesi e americani. Ecco, le suggestioni più intense e dunque i più vivaci motivi di dibattito sono legati al possibile ruolo svolto dai servizi segreti alleati in amicale sodalizio con la "Ghirlanda fiorentina" e cioè con gli intellettuali antifascisti disposti a "collaborare". Dando in qualche modo una mano perché venisse colpito a morte quello che per tutti - da Ranuccio Bianchi Bandinelli ad Eugenio Garin, da Guido Calogero ad Antonio Banfi, da Cesare Luporini a Mario Manlio Rossi - era stato un venerato maestro, sempre sollecito, generoso e alieno da qualunque forma di faziosità? Mecacci non ha in mano "prove" e dunque non pronuncia sentenze ma il «ci sono cose che forse ancora non si possono dire» di Luporini è come il "fil rouge" di tutta la storia. Infine lo studioso non può esimersi dal tornare più volte sulle capriole degli intellettuali, prima fascisti poi antifascisti, prima gentiliani di stretta ed untuosa osservanza poi fieri detrattori del filosofo. È il caso, ad esempio, di Antonio Banfi che, negli anni del fascismo trionfante, avendo a cuore la propria carriera universitaria e sapendo quanto Gentile poteva essergli di sostegno, gli scriveva: "La mia sorte nel concorso è tutta affidata a Lei", "la Sua stima m'è ora di vivo compiacimento e conforto", "ancora una volta Le raccomando la mia sorte". Agli attestati di stima, solo pochi anni dopo, avrebbe fatto seguito la gogna: " Gentile era e rimase un incolto… Le sue ricerche non uscivano dall'ambito della filosofia delle bancarelle…La crudeltà della morte sembra sproporzionata alla persona, sembra gettare non una luce tragica, ma un senso di grottesco su una vita ed un'anima mediocre". Che dire? Tutte storie italiane. Amaramente, terribilmente italiane.
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