Clark e Alexander, duello per Roma
Il generale Usa: «Entriamo prima noi, o spariamo agli inglesi». Cittadini in festa attorno alle jeep. Poi tutti a San Pietro dal Papa
Il 2 giugno 1944 il generale inglese Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, e il generale americano Mark Wayne Clark ebbero un colloquio tempestoso. Alexander espresse il desiderio che l'VIII armata partecipasse alla conquista di Roma, ma Clark protestò minacciando persino, se si fosse verificata questa ipotesi, di dare ordine ai suoi uomini di aprire il fuoco contro gli inglesi. Nel diario, il generale americano annotò: «Se solo Alexander provasse a fare una cosa del genere, avrebbe per le mani un'altra battaglia campale: contro di me». Gli Alleati, insomma, ormai prossimi alla conquista della Città Eterna, litigavano fra loro per chi dovesse entrare per primo a Roma. Clark era ambizioso, non aveva mai pienamente accettato un ruolo subalterno a quello di Alexander, sospettava, anzi, che gli alleati inglesi tramassero ai suoi danni per togliergli il merito storico di essere un nuovo Belisario. In un suo volume di memorie precisò i termini del contrasto: «Non solo desideravamo l'onore di prendere la città, ma ritenevamo di meritarlo, che in un certo senso la cosa ci ricompensasse dei colpi e delle frustrazioni ricevute nel respingere le pressioni invernali dei tedeschi. La mia sensazione era che nulla avrebbe fermato la nostra avanzata verso la capitale italiana. Non solo volevamo diventare il primo esercito dopo quindici secoli a prendere Roma da sud, ma volevamo che la gente del posto sapesse che era stata la V armata a compiere l'impresa». Quello stesso 2 giugno accaddero altri fatti. Era il giorno onomastico di Pio XII e la voce del Pontefice aveva lanciato un solenne ammonimento: «Chiunque osasse levare la mano contro Roma sarebbe reo di matricidio dinanzi al mondo civile nel giudizio eterno di Dio». Intanto, i servizi segreti inglesi avevano decrittato la richiesta di Kesselring a Hitler di evacuare la città senza combattere per le strade, mentre, in serata, Radio Londra trasmise una parola, "Elefante", che segnalava, in codice, alla Resistenza romana l'imminente attacco finale. Ormai l'evento era atteso. Se ne rendevano conto tutti. Anche chi non faceva parte attiva della Resistenza. Luigi Federzoni, uno dei protagonisti della "congiura" del 25 luglio che viveva nascosto per evitare la cattura, scrisse, sempre il 2 giugno, in un diario ancora inedito: «La voce incalzante del cannone ripete a Roma incessantemente di giorno e di notte l'annunzio dell'avvenimento che essa aspetta con impaziente ansietà. La battaglia che infuria a poco più di venti chilometri di qui, volge a favore degli Alleati. Velletri e Valmontone sono state prese. Le difese nemiche predisposte in profondità non sono peranco espugnate; ma è fuori di ogni dubbio che la tenace resistenza germanica si propone solo di salvare il prestigio morale della Wermacht e sopra tutto di dar tempo al maresciallo Kesserling di porre in salvo per le disagevoli vie della dorsale appenninica quel tanto di uomini e di materiale che gli riuscirà di sottrarre alla cattura e alla distruzione». L'ex gerarca, poi, dopo aver riportato un giudizio positivo di Radio Londra sul contributo degli italiani di supporto alle operazione dell'VIII Armata, commentò amaramente il fatto che l'Italia non fosse ancora stata pienamente accettata come alleata: «È tuttora la parte dei "cobelligeranti", non peranco ammessi a figurare in piena luce sul proscenio della guerra. Pazienza; ma sono compiti severi, difficili, per i quali si richiedono perizia, disciplina, ardimento, non meno, e tal volta più, che per gli episodi brillanti maggiormente vantati dai bollettini. Quel che importa è che gli italiani siano ora presenti e partecipi in questa nuova fase della guerra; è che la Patria riprenda a risalire la china per cui era precipitata. Ciò costa e costerà sacrifici di sangue e anche di amor proprio; e questi frutteranno poi quanto quelli». Tra il 4 e il 5 giugno, mentre i tedeschi abbandonavano la città ripiegando verso nord in direzione della linea gotica, le truppe di Clark entrarono a Roma senza incontrare una apprezzabile resistenza accolte festosamente dalla popolazione. Clark si recò di primo mattino, il 5, nel piazzale di San Pietro dove si fece fotografare in compagnia di monsignor Hugh O'Flaherty, il sacerdote cattolico soprannominato la "Primula rossa del Vaticano" che aveva messo in piedi una rete di protezione cui furono debitori della propria salvezza migliaia di civili, militari ed ebrei nascosti in residenze extraterritoriali vaticane e in istituti religiosi della capitale. Poi si fece condurre al Campidoglio, dove per motivi di sicurezza era stata rimossa la statua di Marco Aurelio: era fiero di sé ed euforico, perché vedeva coronato il suo sogno di conquistatore. Si fece immortalare in foto divenute famose. In una conferenza stampa, di fronte a corrispondenti, operatori di cinegiornali e fotografi, disse: «Oggi è un grande giorno per la V armata e per i suoi soldati francesi, inglesi e americani che hanno reso possibile questa vittoria». I romani - provati dalle sofferenze imposte dalla guerra e dal clima di terrore e di sospetti che aveva avvolto la "Roma nazista" e che fino all'ultimo si fece sentire con la fucilazione, il 3 giugno, di un gruppo di detenuti di Via Tasso fra i quali il sindacalista Bruno Buozzi - accolsero con entusiasmo l'arrivo degli Alleati. Ali di folla festante davano il benvenuto ai liberatori, bandiere sventolavano dai balconi e dalle finestre e le jeep degli ufficiali, a cominciare da quella del generale Clark, erano costrette a procedere a balzi. Nel tardo pomeriggio centinaia di migliaia di persone si radunarono in Piazza San Pietro per ascoltare la benedizione del Papa. La storia aveva voltato pagina. Anche sul piano politico: quel giorno stesso Vittorio Emanuele, a Ravello, firmò l'atto con il quale il principe ereditario, Umberto, diventava Luogotenente generale del Regno. Di lì a qualche giorno, anche il governo sarebbe cambiato. Al maresciallo Badoglio sarebbe succeduto Ivanoe Bonomi. La liberazione di Roma segnò una fase decisiva della cosiddetta "battaglia d'Italia" che era praticamente iniziata con l'invasione della Sicilia nel luglio 1943, la prima operazione anfibia nel continente europeo, ed era proseguita, dopo la caduta di Mussolini e la firma dell'armistizio, con lo sbarco di Salerno, la liberazione di Napoli, l'avanzata verso nord, l'assalto alla linea Gustav, le battaglie di Cassino, lo sbarco di Anzio e la difficile avanzata verso la capitale: questa lunga "battaglia", caratterizzata da errori di conduzione e costata decine di migliaia di morti da entrambe le parti, si sarebbe conclusa nel 1945 con l'offensiva finale e la resa dei tedeschi pochi giorni prima della fine della guerra generale in Europa. Guidata all'inizio dal generale Eisenhower e poi dal generale Alexander per colpire quello che venne definito il "morbido basso ventre dell'Asse" fu una delle operazioni militari più difficoltose della guerra. Le truppe alleate furono impegnate in una sanguinosa guerra di logoramento per superare gli ostacoli rappresentati dalle caratteristiche morfologiche del territorio, dalle difficoltà climatiche e dalla resistenza delle forze tedesche. Prima ancora di essere un obiettivo strategico, la conquista di Roma rappresentava, però, un obiettivo simbolico. Il che spiega anche i contrasti fra i generali alleati per arrivare primi nella Città Eterna.
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