L'ultima fuga der "bavosetto" il bandito con le bombe a mano
Mariano Castellani dai furti alle rapine, fino al colpo miliardario Ecco la storia del «pischello» che voleva diventare gangster
Da un paio di settimane, il capo della Criminalpol del Lazio, Sandro Federico è sulle tracce di Mariano Castellani, soprannominato «er Bavosetto», latitante da oltre un anno, condannato per tentato omicidio, associazione per delinquere, ricettazione, detenzione e porto abusivo di armi clandestine. Determinato a catturarlo, tiene sotto controllo i familiari: la convivente, Carmela D'Ortensi, e il figlio di quest'ultima, il ventitreenne Amerigo D'Ortensi, del quale ha sempre rivendicato la paternità. La figlia legittima è morta qualche mese prima, a Testaccio, per un'overdose di eroina. In giro si favoleggia che il gangster stia riorganizzando il gotha dei rapinatori romani, per mettere finalmente a segno quel «colpo del secolo» più volte tentato e regolarmente fallito. Poco prima delle tredici del 15 ottobre del 1991, una Golf civetta della Criminalpol intercetta il latitante: è alla guida di un'auto, a bordo della quale viaggia Amerigo D'Ortensi; riconoscono quest'ultimo, ma non sono certi che l'uomo al volante sia er Bavosetto, che nei mesi di latitanza ha perso venti chili. Avvisano via radio una pattuglia del Commissariato di zona, che a cinquecento metri dall'incrocio tra via Tiburtina e via di San Basilio intima l'alt all'auto sospetta. Mariano Castellani accelera e sorpassa le vetture incolonnate sulla Tiburtina prima di essere bloccato da un camion in manovra. Amerigo D'Ortensi apre lo sportello, tenta di scappare a piedi ma viene fermato da un agente. Er Bavosetto resta immobile, al posto di guida, e mentre due uomini della Criminalpol, con perfetta manovra a tenaglia, si avvicinano con cautela alla sua macchina sui due lati, apre il fuoco con la sua «357 Magnum»: due colpi. Uno va a vuoto, l'altro colpisce una Mercedes di passaggio ferendo lievemente la donna alla guida, Maria Cardarelli, moglie di un poliziotto; poi la pistola s'inceppa, senza che possa esplodere alcuno dei quattro proiettili ancora nel serbatoio. I due agenti rispondono al fuoco, esplodendo quattro colpi, due dei quali raggiungono al fianco destro Mariano Castellani. Morirà poco dopo sull'ambulanza, che lo sta trasporta al Policlinico Umberto I. Con lui muore uno dei pilastri della vecchia mala capitolina, quando la Città eterna sembrava la Chicago anni '30 e i boss dei vari quartieri emulavano l'archetipo del gangster. Er Bavosetto si era formato alla scuola del fratello maggiore, il boss Pietro Castellani, detto er Bavoso, per un difetto di pronuncia. Ancora adolescente aveva esordito nella mala romana e da allora aveva vissuto la libertà come incidente. Il suo primo arresto, per furto, avvenne il 7 maggio 1961. Era appena sedicenne. Evase dal carcere minorile di Casal del Marmo di Roma, per essere quasi subito riarrestato da ricercato. Il 19 ottobre dello stesso anno finì nuovamente dietro le sbarre dell'istituto di rieducazione, per essersi reso responsabile, insieme ad altri complici, di una rapina in una gioielleria di via Ponzio Comino: da «pischello» aveva fatto soltanto l'autista. Occorrerà attendere il 1964, perché inizi a operare «in proprio»: il 14 marzo svuota la sede della ditta «La Barbera» di viale delle Medaglie d'Oro e pochi giorni dopo rapina una tabaccheria di via Salerno. Nei dieci anni successivi non se n'era sentito più parlare, ma il 14 giugno 1974 era stato arrestato in piazza Santa Maria Liberatrice, poiché sorpreso in compagnia di altre tre persone, a bordo di un'auto rubata, in possesso di un revolver, un passamontagna e un paio di guanti di lattice. Uscito di galera aveva deciso che i tempi erano maturi per il salto di qualità e s'era, dunque, unito ad Albert «Bocca piena» Bergamelli e a Tony Mattei detto «er Paciocco». Nel frattempo, il fratello maggiore era stato trovato morto, in un appartamento di Via Val Melaina, crivellato di proiettili insieme a Maria Lopez, detta «la Chiodarola» . Laudavino De Sanctis, il famigerato «Lallo lo zoppo», in un'intervista rveleràche questa «formidabile donna di mala» si era innamorata di una ragazza, ragion per cui «il Bavoso la uccise a colpi di mitra e si ammazzò». Arrestato ancora per detenzione di armi abusive er Bavosetto, tornato in libertà, aveva tentato, il 9 agosto 1974, una rapina al Policlinico Umberto I, ma lo avevano bloccato prima del colpo mentre in piazza dei Siculi stava armeggiando intorno a una Fiat 500 con un mitra, delle maschere e dei camici bianchi. Nuovamente libero, il 12 settembre successivo, insieme a Salvatore Sibio, detto «er Tartaruga», aveva rubato dieci milioni di lire all'agenzia di via Carlo Alberto della Cassa di Risparmio: arrestati entrambi, ma questa volta la procedura giudiziaria fu insolitamente lenta. Il 2 settembre 1975, quasi un anno dopo, non spiegandosi perché il gioco di fuga, rapina, ferimenti, carcere e liberazione non fosse ancora ricominciato, mentre loro continuavano a essere in attesa di giudizio, i due minacciarono di bruciarsi vivi per protesta nell'infermeria del carcere. Constatato, peraltro, che le minacce non producevano l'effetto sperato, il 4 novembre successivo fuggirono insieme a Franco Trinca e Vittorio Gracci infilandosi in un passaggio dell'ufficio accettazione pacchi. Grazie a questa evasione, Castellani aveva conquistato la TV di Stato: nel corso della rubrica «Un fatto: come e perché», aveva avuto modo di raccontare, la triste vita dei detenuti e la patetica storia di un personaggio, cioè se stesso, vittima dell'accanimento poliziesco e giudiziario, costretto a evadere per sottrarsi alle indicibili vessazioni di un sistema repressivo, cinico e baro. E mentre, seppure ricercatissimo, si ergeva in tv a patrono e vindice dell'umanità dolente, accarezzava già il sogno di un colpo miliardario, a base di mitra e bombe a mano. E, infatti, il mattino di venerdì 30 gennaio 1976, un commando di criminali avrebbe tentato un assalto al vagone portavalori in partenza per Genova-Torino, stracolmo di valuta, dalla Stazione Termini. L'«ambulante», così veniva chiamato in gergo il vagone portavalori, poteva essere agganciato sia dal DD2608 delle 7:05 sia dal successivo rapido 900 delle 8:20. E proprio sul rapido gli agenti della Polfer effettuarono un controllo, avendo notato sette passeggeri già a bordo del convoglio che sarebbe partito un'ora e mezzo dopo. Alri tre uomini sostavano nell'intercomunicante, un borsone bleu era stipato nel portabagagli. I poliziotti chiesero a costoro i documenti e fecero domande sul viaggio. Uno dei tre, allora, afferrò la borsa e si gettò giù dal treno imitato dagli altri. Ebbe inizio l'inseguimento: nel sottopassaggio il primo sparo dei fuggitivi e la risposta al fuoco degli inseguitori. All'aperto, uno dei banditi si accasciò ferito, un altro tornò indietro e, indirizzando raffiche di mitra verso i poliziotti, prelevò il complice e cercò, tirandoselo dietro, di raggiungere un'Alfetta bianca, in attesa poco distante da lì. L'intervento del brigadiere dei carabinieri Francesco Golino, che in via Giolitti intimò l'alt impugnando la pistola d'ordinanza, mentre uno dei banditi gli puntava contro il mitra e un altro gli scagliava contro una bomba a mano, diede il via a quello della «Volante Zara», che si lanciò in un rocambolesco inseguimento, segnato dal fuoco incrociato delle armi automatiche e dalle esplosioni delle bombe: in via Gioberti la seconda, poi un'altra in via Merulana, la quarta in via Brancaccio, la quinta e ultima a Colle Oppio, poco lontano dalla Domus Aurea di Nerone, dove sulla strada sbarrata dalle colonne di pietra terminò la folle corsa. Dall'Alfetta crivellata di colpi, scesero tre malfattori. L'ultimo fu Mariano Castellani, che tenendo in mano una bomba e puntando una calibro 38 verso gli agenti, intimò loro: «Fermi, o vi ammazzo!» Quelli non se ne diedero per intesi e spararono. Raggiunto da cinque colpi di mitra in varie parti del corpo, er Bavosetto venne sottoposto immediatamente a intervento chirurgico e trasfusioni di sangue presso l'ospedale San Giovanni: sopravvisse, ma ne ebbe per novanta giorni. L'ultimo arresto, nel 1983, mentre tentava di rapinare gli stipendi della Regione Lazio, quando ormai la Banda della Magliana aveva conquistato il suo feudo: Testaccio.
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