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Antisemitismo, per i giudici non è più reato: assolto chi insulta gli ebrei

Iuri Maria Prado
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Se il «genocidio», la «pulizia etnica», la «punizione collettiva», insomma le ignominie di cui si sarebbe reso responsabile Israele diventano le verità che legittimano l’insulto degli ebrei vuol dire che il limite dell’impensabile è superato. E se non si tratta della chiacchiera da bar, ma di provvedimenti giudiziari che - respingendo i ricorsi delle vittime - mandano assolti i responsabili di quelle aggressioni per ora solo verbali, ma ben capaci di istigare più soda violenza, significa che il pregiudizio antisemita ha preso i gradi dell’ufficialità amministrativa e minaccia ben più pericolosamente lo Stato di diritto.

Si trattava di procedimenti in sede civile in cui le parti lese chiedevano al giudice di disporre la rimozione di messaggi di diffamazione diffusi via social. Per tre volte nel giro di poche settimane, a Milano e a Roma, la giustizia ha mostrato noncuranza per quelle richieste di tutela, respingendo le istanze di persone accusate di collaborazionismo genocidiario e perciò definite «naziste» e «razziste» solo perché non allineate alla propaganda che mostra le foto di Auschwitz accanto a quelle delle rovine di Gaza.

 

Succede qui, in Italia. Nel Paese che approvò le leggi razziali, nel Paese che retoricamente istituisce commissioni parlamentari contro l’odio e celebra il giorno della Memoria, comincia a essere scritta la giustizia che minimizza la violenza contro gli ebrei perché alla fine dei conti la loro responsabilità sterminatrice è inoppugnabile.

Comincia cioè a essere scritto su carta giudiziaria, non sulla superficie della palude social, che sarebbe lecito fare la lista dei potentati giudaici nel sistema dell’informazione e accusarli di cospirare contro la verità in forza di quel loro predominio. Con la differenza che quella palude, per quanto estesa, non gode di nessun serio accreditamento e può ancora essere, se lo si vuole, bonificata: mentre se gli effetti della propaganda antisemita risuonano in aula di giustizia, assolvendosi nelle ordinanze che danno di lungo all’ebreo che non ha diritto di sentirsi insultato finché non giura di appartenere alla schiatta persecutrice, allora siamo ben dentro a un disastro civile e morale cui è molto più difficile porre rimedio.

 

Quando un giudice - siamo a Milano, in questo caso - parla di «punizione collettiva» a proposito della reazione israeliana al pogrom del 7 Ottobre dell’anno scorso, adotta criteri di valutazione recuperati non dai codici, ma dal proprio orientamento politico: che è legittimo sfogare in un corteo studentesco, ma davvero non nel processo governato dalla legge uguale per tutti. Cioè la legge che dovrebbe fare divieto di insultare qualcuno solo perché appartiene a un popolo che ha legami familiari, storici e culturali con un Paese, Israele, ormai adibito a complessiva sputacchiera. Giusto come sarebbe sanzionato chi desse di sporco mafioso a qualcuno perché porta un cognome palermitano e si rifiuta di scrivere col proprio sangue che la Sicilia è un ammasso di sterco.

Quando un giudice- siamo ancora a Milano - pretende di accreditare la tesi del «genocidio» argomentando che esso sarebbe stato ritenuto «plausibile» dalla Corte Internazionale di Giustizia (è una bugia contraddetta dalla stessa presidente della Corte, Joan E. Donoghue), significa che la propaganda non è più soltanto la colonna sonora del talk show, ma si legalizza in carta bollata.
Quando un giudice - e questa volta siamo a Roma- indugia sul termine «femminicidio», per sostenere che è legittimo denigrare chi lo usa a proposito degli stupri del 7 ottobre, non si richiama a qualche pertinente criterio sul diritto di critica: al contrario, legittima la mozione collettiva che fa le pulci all’effettività delle violenze subite dalle donne israeliane, la stessa che mostrava indignazione perché i bambini nelle culle non erano decapitati, come raccontava la subdola l’Entità Sionista, ma solo sgozzati. Per ora sono provvedimenti giudiziari isolati. Che restino tali o invece si moltiplichino dipende dal grado di indifferenza di cui saranno destinatari.

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