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Il Tempo delle donne, De Girolamo: "Diritti guadagnati ma libertà persa"

Nunzia De Girolamo
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Abbiamo guadagnato diritti, ma perso libertà. È l’8 marzo, ma è una lotta continua. E non vuole essere, questa, la solita retorica femminista. Anche se, probabilmente, lo avete già pensato sin dalla prima frase. Non è retorica perché di questa ne è pieno il mondo. Virtuale e reale. Social e giornali, convegni e dibattiti. Ma se serve a sensibilizzare, a parlarne e far ragionare: ben venga anche quella. Se serve a far riflettere sul gender gap, sulla disparità salariale, sulla continua scelta che le donne devono fare. Non nella forma, ma nella sostanza: lavoro o famiglia, famiglia o lavoro. È drammatica, ogni volta, ma così banalmente reale. Perché a Brindisi, notizia di poche ore fa, è servito un tribunale per stabilire che una donna non poteva essere licenziata solo perché incinta. Un tribunale, con i suoi tempi. Non celeri e così drammaticamente complicati. Per asserire che, in fondo, De Gregori in Adelante aveva pure ragione. Che serve un attimo per «confondere il diritto con il favore». Vorrei, questo pezzo, non fosse solo retorica. Perché forse nel frattempo un po’ lo è anche diventato. Ma la storia di Brindisi è solo tracotante realtà. Di quelle che lasciano senza parole. Con tante Brindisi nascoste, sottaciute, chiuse nei peggiori dei silenzi assordanti. In una velata vergogna, che ancora oggi mette in ansia una donna che deve comunicare la propria maternità. Tra queste righe non chiederò l’ennesima legge a tutela del «genere», non mi lamenterò con una parte politica o con l’altra per la mancata sinergia parlamentare che dura da anni. Dovremmo, nella realtà, aprire il mondo alla libertà di una donna di essere semplicemente una donna.

Di essere poi anche fidanzata, moglie, amica, compagna. Ma di essere, prima di ogni cosa, se stessa. Libera, dappertutto. Su questo, il 2023 appena passato, è stato un anno strano. La politica si è vestita di rosa: maggioranza ed opposizione. Non di certo solo nella forma. Non nella retorica, quella si, delle quote obbligate. Giorgia Meloni ed Elly Schlein, su due binari opposti ma paralleli, hanno intrapreso un viaggio dal quale non si torna indietro. Per fortuna. Fatto di timone e non di gregarie. Ma, l’anno che abbiamo alle spalle, sono anche le donne che hanno perso la vita a causa di uomini. Quelli che oggi regalano rose, mimose e sorrisi. E che, forse, negli anni scorsi lo avevano fatto. Anche loro, quelli che hanno deciso arbitrariamente di sostituire con la parola fine dove vi è scritto semplicemente «futuro». A Giulia Cecchettin, a Giulia Tramontano e tante altre ancora. Alle tante donne che sono state protagoniste e vittime loro malgrado. Donne che non hanno scelto di riempire le pagine dei nostri giornali. Donne che non desideravano si parlasse di loro e del loro dolore. Donne che nel silenzio, nel ricatto, nella violenza provavano solo ad essere protagoniste della propria vita. Donne che volevano semplicemente essere libere. Libere di vivere. Libere di vedere, ancora una volta, il sole sorgere e tramontare. E poi risorgere ancora: che è, per l’appunto, la metafora perfetta della libertà.

Nel 2023 qualcosa è cambiato, sicuramente qualcosa cambierà ancora. Oggi non è la festa del protagonismo personale, è una festa di massa che ormai è diventata una emergenza di massa. Forse serve solo una rivoluzione silenziosa fatta di educazione e di rispetto, di cui dobbiamo contaminare le generazioni future. Oppure serve rumore, solo tanto rumore. Serve la tracotanza di un tribunale per stabilire normalità: i diritti non sono mai favori. E queste battaglie si conducono insieme e non esistono persone che abbiano patenti di verità o credibilità più di altre. I titoli appendiamoli dove servono davvero. E questa, giuro, non è retorica. Ma semplice realtà.

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