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Salvador Dalì, genio controcorrente

Il suo libro distruggeva il mito dell'egualitarismo già prima del '68 «Dall'adolescenza programmai di fare un po' di galera e molti soldi»

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«Picasso è spagnolo. Anch'io. Picasso è un genio. Anch'io. Picasso è comunista. Io no». Firmato Salvador Dalí. Son passati cinquant'anni da quando, nel 1964, il pittore spagnolo, che aveva in simpatia Francisco Franco, diede alle stampe il suo Diario di un genio . Eppure, nonostante il tempo, resta in quelle pagine uno spartiacque del Novecento, l'idea che non ci debba essere egualitarismo anzitutto nell'arte ma pure nell'umanità. «Dalla Rivoluzione francese - scrive Dalí - si è sviluppata la viziosa tendenza rincretinente a pensare che i geni (a parte la loro opera) siano degli esseri umani più o meno simili in tutto al resto dei comuni mortali. Ciò è falso. E se ciò è falso per me che sono, nella nostra epoca, il genio dalla spiritualità più vasta, un vero genio moderno, è ancora più falso per i geni che incarnarono l'apogeo del Rinascimento, come Raffaello genio quasi divino. Questo libro testimonierà che la vita quotidiana di un genio, il suo sonno, la sua digestione, le sue estasi, le sue unghie, i suoi raffreddori, il suo sangue, la sua vita e la sua morte sono essenzialmente differenti da quelli della restante umanità». Era il 1964 in Europa, a parte la Spagna franchista e qualche altra eccezione, il momento prima della fantasia al potere, del Sessantotto con il suo mito a metà tra arte, rivoluzione ed egualitarismo. In questo Diario, Dalí decreta - a modo proprio certo, parlando magari dei rumori di pancia in digestione, la fine del Sessantotto prima che nasca. Lo mette nero su bianco, vergando la propria sregolatezza, la sua diversità, con ironia intrisa di narcisismo. «Ogni mattina - scrive - svegliandomi, sperimento un piacere supremo che oggi scopro per la prima volta: quello d'essere Salvador Dalì, e mi domando, colmo di meraviglia, cosa farà ancora di prodigioso oggi questo Salvador Dalì...». Nel talento dell'individuo, nella sua tenacia sta il motore del mondo, non nell'eguaglianza. Oggi che il Diario di un genio compie 50 anni, e sono pure trascorsi 110 anni dalla nascita di Dalì, va riletto anche soprattutto come testo politico. Se Picasso, comunista, incarna il suo impegno politico nella colomba della pace e in Guernica, Dalì la sua filosofia la mette nei dipinti, ma molto pure in questo Diario. In fondo il pittore catalano, era nato a Figueras, non è un uomo del suo tempo. Semmai controcorrente. Tra gli anni Cinquanta e Settanta si vanno affermando, intellettuali e artisti di sinistra. Lui no. Fa il contrario, rivendica la ricchezza e non la nasconde al punto da beccarsi anche un soprannome, che poi sarebbe l'anagramma del suo, Avida Dollars. Se ne frega, e nel Diario, buttato giù in oltre dieci anni di pensieri e di istanti, di emozioni e di follie da appuntare, dice chiaro: «Sin dall'adolescenza la prudenza mi consigliò fermamente due cose: fare un po' di prigione il prima possibile, e l'ho fatta. Diventare leggermente multimilionario, e l'ho fatto». I poveri non lo hanno mai affascinato, e niente sensi di colpa, per carità. La sua attenzione Dalì la indirizza su stesso, egotico e visionario. Senza temere i confronti o le citazioni con la cultura superomistica, a cominciare da Nietzsche. «Quando aprii Nietzsche per la prima volta si legge in un passaggio del suo Diario di un genio - rimasi profondamente colpito. Nero su bianco, aveva l'audacia d'affermare "Dio è morto!". Ma come! Avevo appena imparato che Dio non esiste, e adesso qualcuno mi partecipava il suo decesso! Mi si affacciavano i primi dubbi. Zarathustra mi appariva come un eroe grandioso di cui ammiravo la grandezza d'animo ma nello stesso tempo si tradiva con delle puerilità che io, Dalì, avevo già superato. Un giorno sarei stato più grande di lui! L'indomani della prima lettura di Così parlò Zarathustra avevo già la mia idea su Nietzsche. Era un debole che aveva avuto la debolezza di diventare pazzo, mentre in questo campo l'essenziale è non diventare pazzi! Queste riflessioni mi fornirono gli elementi della mia prima massima destinata a diventare il tema della mia vita: "L'unica differenza tra un pazzo e me, è che io non sono pazzo!". In tre giorni, finii di assimilare e digerire Nietzsche. Terminato questo pasto selvaggio, mi restava un solo dettaglio della personalità del filosofo, un solo osso da rodere: i suoi baffi! Più tardi Federico García Lorca, affascinato dai baffi di Hitler, doveva proclamare che i baffi sono la costante tragica del volto umano. Ma anche per i baffi mi accingevo a superare Nietzsche! I miei non sarebbero stati deprimenti, catastrofici, prostrati dalla musica wagneriana e dalla bruma. No! Sarebbero stati affilati, imperialisti, ultra-razionalisti e puntati verso il cielo come il misticismo verticale, come i sindacati verticali spagnoli». Dettaglio dopo dettaglio, pensiero dopo pensiero Salvador Dalí lavora alla costruzione del proprio mito, artistico e individuale. Lo fa nella pittura, nel cinema, nella mode, nelle uscite pubbliche, andandosene a spasso con un'aragosta al guinzaglio. Lo fa con i suoi baffi. E scrivendo il Diario . Oggi, cinquant'anni dopo, con l'eccentricità che pare diventata una regola di marketing, con l'uso sconsiderato che si fa della parola "genio" - attribuendola al primo che capita, magari chi fa una canzone o chi sproloquia in tv, possiamo dire che il mondo, soprattutto dello show business, si è fatto daliniano. In politica no. Continua a prevalere Picasso, il politicamente corretto. E chissà cosa ne penserebbe Dalì di tutto questo, se fosse ancora tra noi. Lui che sullo scoppio della guerra civile spagnola scrisse: «Tale fu il desiderio carnale della guerra civile in questa Spagna impaziente. Si sarebbe visto come era capace di soffrire, di far soffrire, di seppellire e disseppellire, di uccidere e far rivivere. Bisognava grattare la terra per riesumarne la tradizione e profanare ogni cosa per poter tornare ad abbagliare con tutti i tesori che il paese celava nelle sue viscere».

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