Il «nero» che cambiò la storia Il «nero» che cambiò la storia
Decimo d'undici figli di una famiglia di fede battista in un lurido villaggio dell'Alabama, ha nelle tasche della tuta olimpica un foglietto ingiallito su cui anni prima Charles Riley, allenatore degli esordi, aveva scritto di considerare il terreno come un mattone infuocato e di non lasciare mai troppo a lungo il piede a terra, salvo bruciarsi. Alle diciotto del 5 agosto 1936, il ventitreenne di Oakville Jesse Owens scende all'interno dello stadio olimpico. È la decima volta in tre giorni. Lo attende la finale dei 200 metri. L'atleta di colore è già il personaggio dei Giochi. Ma lo ignora. Unico segno, la quantità di videocamere allestite attorno alla sua persona. Jesse liquida a mani basse l'impegno sul mezzo giro di pista con il primato mondiale di 20 secondi e 7 decimi, tre metri di vantaggio sul connazionale Matthew Robinson e cinque su Martin Osendarp, olandese, più avanti condannato come criminale di guerra per le efferatezze compiute tra i ranghi delle SS. Non è stanco, Jesse, ma ne avrebbe il diritto. Ed ha ancora dinanzi a sé batteria e finale della staffetta veloce. Sul podio, Owens rievoca velocemente quanto realizzato nei giorni precedenti. Ha vinto la medaglia d'oro sui 100 precedendo il suo vecchio amico Ralph Metcalfe. Ha doppiato il successo nel salto in lungo, rischiando in mattinata l'ingresso in finale con un millimetrico 7.15 al terzo salto di qualificazione. Ha vissuto il momento tecnico più intenso dell'esperienza olimpica nella finale: è in testa dal primo salto, ma solo con le ultime due prove, culminate con un inviolabile 8.06, ha messo una barriera invalicabile tra le sue misure e quelle realizzate da Luz Long, l'atleta di casa con cui ha spontaneamente familiarizzato in campo e fuori, mai immaginando come anni dopo una guerra malsana avrebbe definitivamente diviso anime, razze e colori di pelle, lasciando il corpo martoriato del tedesco sul fronte siciliano, era il 14 luglio 1943, nella battaglia di Santo Pietro segnata dai crimini di guerra ordinati dal generale statunitense George Smith Patton. Il 9 agosto, precedendo un meraviglioso quartetto azzurro composto da Orazio Mariani, Gianni Caldana, Elio Ragni e Tullio Gonnelli, insieme con i compagni Metcalfe, Wykoff e Draper, Owens fa propria la quarta medaglia d'oro. A distanza di decenni, rivedendo le immagini incise in Olympia, il memorabile documento sui Giochi del 1936 firmato da Leni Riefenstahl con lo strumento raramente fallibile della ripresa filmata, resta inalterata la suggestione di un modello di corsa insuperato e di una sintesi estetica mai vista prima su una corsia di atletica, e ancor meno dopo, quando a partire a ridosso del ventunesimo secolo nel panorama dello sport e dell'atletica avranno via libera le ipertrofie muscolari. Con le sue quattro affermazioni, Owens non sconvolse le leggi dello sport. Fu, nella sua semplicità fisiologica, un prodigio naturale, idolo per intere generazioni, le stesse che alla ricerca della parte migliore di sé riversavano nell'aristocrazia di un gesto gli stupori dell'infanzia e le costruzioni di vita della prima e della seconda adolescenza. A Berlino, quando giunse, Owens era tutt'altro che uno sconosciuto. L'anno precedente, con la maglia della Ohio State University acquisita per meriti sportivi, aveva affrontato quattro gare nel giro di 75 minuti. Accadeva al campo di Ann Arbor nel Michigan, il 25 maggio, in quello che una esemplare metafora indicò essere il primo, autentico «Day of Days», il giorno dei giorni dello sport mondiale: cinque primati mondiali battuti e uno eguagliato tra distanze metriche e yards, sul piano e sugli ostacoli, con un superbo 8.13 nel lungo. Si dovranno attendere venticinque anni, e l'8,21 realizzato da Ralph Boston nelle selezioni per i Giochi di Roma, per un aggiornamento del record del lungo. Dopo Berlino, Owens decise di smettere. Ultima presenza ufficiale, il 15 agosto, al White City di Londra, incontro Stati Uniti e Commonwealth britannico: un'esibizione nel lungo con un modesto 7.59, e la terza frazione nella 4x100 yards. Pressato da esigenze economiche, nei periodi successivi Owens tentò con scarso esito di mettere a frutto la propria notorietà esibendosi in spettacoli e in gare che con lo sport poco avevano a che fare, competizioni con cavalli, levrieri, mezzi a motore. Solo avanti negli anni poté godere di aiuti e di favori governativi, propiziati da atteggiamenti e da una natura scarsamente inclini ad assumere vistose esposizioni politiche, come quelle di cui furono protagonisti in varie occasioni atleti di colore, primi tra essi, nel 1968, Tommie Smith e John Carlos sul podio olimpico di Città del Messico. D'altronde, la semplice e tuttavia lucida filosofia dell'originario dell'Alabama suggeriva come per le sorti dei propri simili molto più contasse la salita su un podio olimpico piuttosto che spaccare vetrine a Los Angeles o a New Orleans. Ebbe il sostegno personale di vari presidenti, John Kennedy, Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter. Con l'ultimo, si schierò a favore del boicottaggio ai Giochi del 1980, sostenendo che come ad Adolf Hitler l'Olimpiade del 1936 non aveva insegnato a considerare uguali tutti gli uomini senza distinzione di razza e di colore, nello stesso modo i Giochi olimpici di Mosca non avrebbero insegnato a Leonid Breznev ed ai suoi la parola libertà. Uomo immagine per conto del Comitato olimpico statunitense, accolto con tutti gli onori nel 1972 all'Olimpiade tedesca di Monaco, Owens fece la sua ultima apparizione su una tribuna olimpica ai Giochi di Montreal, nel 1976, inquadrato a fianco di quella che fu sua compagna di vita dal 1935, Minnie Ruth Solomon. Il monumentale stadio di Berlino lo ricorda con una targa, e la città con una via. Oakville con un monumento, dove è scritta «la speranza che la fiamma dello sport possa brillare per l'anima dell'umanità». Jesse Owens morì per cancro al polmone il 31 marzo 1980, a Tucson, in Arizona. Era nato il 12 settembre 1913. Decimo d'undici figli di una famiglia di fede battista in un lurido villaggio dell'Alabama, ha nelle tasche della tuta olimpica un foglietto ingiallito su cui anni prima Charles Riley, allenatore degli esordi, aveva scritto di considerare il terreno come un mattone infuocato e di non lasciare mai troppo a lungo il piede a terra, salvo bruciarsi. Alle diciotto del 5 agosto 1936, il ventitreenne di Oakville Jesse Owens scende all'interno dello stadio olimpico. È la decima volta in tre giorni. Lo attende la finale dei 200 metri. L'atleta di colore è già il personaggio dei Giochi. Ma lo ignora. Unico segno, la quantità di videocamere allestite attorno alla sua persona. Jesse liquida a mani basse l'impegno sul mezzo giro di pista con il primato mondiale di 20 secondi e 7 decimi, tre metri di vantaggio sul connazionale Matthew Robinson e cinque su Martin Osendarp, olandese, più avanti condannato come criminale di guerra per le efferatezze compiute tra i ranghi delle SS. Non è stanco, Jesse, ma ne avrebbe il diritto. Ed ha ancora dinanzi a sé batteria e finale della staffetta veloce. Sul podio, Owens rievoca velocemente quanto realizzato nei giorni precedenti. Ha vinto la medaglia d'oro sui 100 precedendo il suo vecchio amico Ralph Metcalfe. Ha doppiato il successo nel salto in lungo, rischiando in mattinata l'ingresso in finale con un millimetrico 7.15 al terzo salto di qualificazione. Ha vissuto il momento tecnico più intenso dell'esperienza olimpica nella finale: è in testa dal primo salto, ma solo con le ultime due prove, culminate con un inviolabile 8.06, ha messo una barriera invalicabile tra le sue misure e quelle realizzate da Luz Long, l'atleta di casa con cui ha spontaneamente familiarizzato in campo e fuori, mai immaginando come anni dopo una guerra malsana avrebbe definitivamente diviso anime, razze e colori di pelle, lasciando il corpo martoriato del tedesco sul fronte siciliano, era il 14 luglio 1943, nella battaglia di Santo Pietro segnata dai crimini di guerra ordinati dal generale statunitense George Smith Patton. Il 9 agosto, precedendo un meraviglioso quartetto azzurro composto da Orazio Mariani, Gianni Caldana, Elio Ragni e Tullio Gonnelli, insieme con i compagni Metcalfe, Wykoff e Draper, Owens fa propria la quarta medaglia d'oro. A distanza di decenni, rivedendo le immagini incise in Olympia, il memorabile documento sui Giochi del 1936 firmato da Leni Riefenstahl con lo strumento raramente fallibile della ripresa filmata, resta inalterata la suggestione di un modello di corsa insuperato e di una sintesi estetica mai vista prima su una corsia di atletica, e ancor meno dopo, quando a partire a ridosso del ventunesimo secolo nel panorama dello sport e dell'atletica avranno via libera le ipertrofie muscolari. Con le sue quattro affermazioni, Owens non sconvolse le leggi dello sport. Fu, nella sua semplicità fisiologica, un prodigio naturale, idolo per intere generazioni, le stesse che alla ricerca della parte migliore di sé riversavano nell'aristocrazia di un gesto gli stupori dell'infanzia e le costruzioni di vita della prima e della seconda adolescenza. A Berlino, quando giunse, Owens era tutt'altro che uno sconosciuto. L'anno precedente, con la maglia della Ohio State University acquisita per meriti sportivi, aveva affrontato quattro gare nel giro di 75 minuti. Accadeva al campo di Ann Arbor nel Michigan, il 25 maggio, in quello che una esemplare metafora indicò essere il primo, autentico «Day of Days», il giorno dei giorni dello sport mondiale: cinque primati mondiali battuti e uno eguagliato tra distanze metriche e yards, sul piano e sugli ostacoli, con un superbo 8.13 nel lungo. Si dovranno attendere venticinque anni, e l'8,21 realizzato da Ralph Boston nelle selezioni per i Giochi di Roma, per un aggiornamento del record del lungo. Dopo Berlino, Owens decise di smettere. Ultima presenza ufficiale, il 15 agosto, al White City di Londra, incontro Stati Uniti e Commonwealth britannico: un'esibizione nel lungo con un modesto 7.59, e la terza frazione nella 4x100 yards. Pressato da esigenze economiche, nei periodi successivi Owens tentò con scarso esito di mettere a frutto la propria notorietà esibendosi in spettacoli e in gare che con lo sport poco avevano a che fare, competizioni con cavalli, levrieri, mezzi a motore. Solo avanti negli anni poté godere di aiuti e di favori governativi, propiziati da atteggiamenti e da una natura scarsamente inclini ad assumere vistose esposizioni politiche, come quelle di cui furono protagonisti in varie occasioni atleti di colore, primi tra essi, nel 1968, Tommie Smith e John Carlos sul podio olimpico di Città del Messico. D'altronde, la semplice e tuttavia lucida filosofia dell'originario dell'Alabama suggeriva come per le sorti dei propri simili molto più contasse la salita su un podio olimpico piuttosto che spaccare vetrine a Los Angeles o a New Orleans. Ebbe il sostegno personale di vari presidenti, John Kennedy, Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter. Con l'ultimo, si schierò a favore del boicottaggio ai Giochi del 1980, sostenendo che come ad Adolf Hitler l'Olimpiade del 1936 non aveva insegnato a considerare uguali tutti gli uomini senza distinzione di razza e di colore, nello stesso modo i Giochi olimpici di Mosca non avrebbero insegnato a Leonid Breznev ed ai suoi la parola libertà. Uomo immagine per conto del Comitato olimpico statunitense, accolto con tutti gli onori nel 1972 all'Olimpiade tedesca di Monaco, Owens fece la sua ultima apparizione su una tribuna olimpica ai Giochi di Montreal, nel 1976, inquadrato a fianco di quella che fu sua compagna di vita dal 1935, Minnie Ruth Solomon. Il monumentale stadio di Berlino lo ricorda con una targa, e la città con una via. Oakville con un monumento, dove è scritta «la speranza che la fiamma dello sport possa brillare per l'anima dell'umanità». Jesse Owens morì per cancro al polmone il 31 marzo 1980, a Tucson, in Arizona. Era nato il 12 settembre 1913.