Pro e contro di un'Italia multietnica

Sarà interessante seguire, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, quali riflessi avrà l'amarissima disavventura del Mundial sudafricano sulla nostra organizzazione calcistica. Naturalmente il punto di riferimento sarà l'esito del torneo iridato, che finora ha fornito indicazioni soprattutto: a)sulla superiorità tecnica e agonistica della scuola sudamericana, in particolare del Brasile e dell'Argentina; b) sulla formula del tutto originale adottata dalla Federazione tedesca che, per la sua rappresentativa, ha fatto una scelta precisa: giocatori a preferenza giovani, e quindi ben dotati di fiato e di aggressività; squadra multietnica, formata cioè anche, se non soprattutto, con elementi non nati nel territorio della Confederazione germanica ma naturalizzati e figli di immigrati, cresciuti nel calcio giovanile tedesco ma capaci di offrire ai club e alla Nazionale spunti, temperamenti, estri importati dall'estero, spesso dall'Europa Orientale.   Dai primi commenti di dirigenti, esperti e cronisti italiani compreso quel presidente Abete al quale molti, partendo dall'automatica conferma del Ct Lippi a quattro anni dalla conquista del titolo mondiale, vorrebbero addebitare una parte almeno della responsabilità del disastro di Città del Capo, dai primi commenti dicevamo sembra che non si è cambiata la candidatura di Prandelli, che si mette anzi prestissimo al lavoro in vista della trasformazione radicale della squadra azzurra, con pochissime conferme rispetto al blocco di Lippi. All'ex-allenatore della Fiorentina sarà, però, consentito di aprire le porte della Nazionale - proprio sull'esempio tedesco - ai giocatori stranieri che possono essere naturalizzati come discendenti di oriundi o coniugi di donne italiche. Il vostro vecchio cronista ha fatto, nella sua interminabile carriera, molte esperienze di quanti esperimenti e non li trova riprovevoli, se non altro perché sono ammessi dal regolamento internazionale e praticati tranquillamente nel vasto globo. Si permette, però, di obiettare che, al di là di eccessi nazionalistici appartenenti a un lontanissimo passato, la competizione tra rappresentative di dati Paesi ha un significato ben diverso da quello dei tornei nazionali o internazionali delle formazioni di club. Questi ultimi appartengono alla logica del calcio-spettacolo; l'altra chiama in causa valori diversi, tradizioni, culture, non a caso contrassegnate da inni nazionali, da bandiere patriottiche, da un tifo collettivo che assume perfino sfumature commoventi, per esempio nella partecipazione di spettatori emigrati da poco o da molto tempo, ma legati ancora al Paese che hanno lasciato. Giocare al calcio non vuol dire soltanto segnare gol e incassare milioni. Almeno nella Nazionale significa difendere anche il prestigio e le caratteristiche della propria terra. In ogni caso, se per la fretta di recuperare risultati entusiasmanti si può indulgere all'innesto degli oriundi (lo fece perfino il regime fascista), è chiaro a tutti che la via maestra è quella della valorizzazione, di più, del rilancio, la specializzazione, dei vivai giovanili. Conviene sotto il profilo economico, perché un'intera squadra di «under 21» costa meno, istruttori compresi, di un solo campione internazionale; conviene sotto il profilo morale perché aiuta i club meno ricchi e i tifosi più delusi a ritrovare a cuore aperto la speranza.