The italian job

Stavolta ha preferito il campionato. Per la precisione, la Premiership. Carlo Ancelotti è il primo italiano a vincere il torneo inglese smentendo il titolo della sua recente biografia intitolata «Preferisco la coppa». Per la verità, il primo titolo l'aveva già vinto al match d'esordio sulla panchina dei Blues il 9 agosto 2009 quando, battendo ai rigori gli eterni rivali del Manchester United, si era presentato ad Abramovich recando il Community Shield in regalo. Ma lo scudetto strappato dopo tre anni ai soliti Diavoli Rossi di Ferguson surclassa tutto il resto per distacco. Senza contare che una coppa può ancora vincerla dovendo giocare sabato prossimo la finale della Fa Cup contro il Portsmouth. In caso di vittoria saremmo di fronte a un Double in grado di lanciarlo nella storia del calcio inglese, lui che con i titoli ha riempito le pur capaci bacheche nella sua tenuta emiliana. Dodici trionfi da giocatore simbolo della Roma di Liedholm e del Milan di Sacchi, due allenatori dalla personalità enorme pur se estremamente diversi, che gli hanno inoculato giorno dopo giorno il virus della panchina. Poi sette titoli da coach del Milan, dove ha scritto la storia degli ultimi anni, secondo solo a Nereo Rocco. Del resto lui è fatto così, concretezza contadina all'insegna della semplicità, talmente semplice da sfiorare la banalità. Banale ma terribilmente efficace, come l'inglese che sfoggia in conferenze stampa al limite della Gialappa's e che ha rispolverato ieri al culmine di un normale pomeriggio di felicità dopo aver passeggiato sul Wigan battuto 8-0. Al centro del prato dello Stamford Bridge, ha arringato i suoi supporters microfono in mano e grinta da consumato front man. «I'm very happy to train this team ...», discorso di circostanza pronunciato col solito tono monocorde ma culminato con un grido, quasi un ruggito: «C'mon Chelsea!». Il vero Carletto I da Reggiolo detto il Serafico, è tutto qui. In perfetto controllo della situazione, esercitato sciorinando calma e distacco per coprire la grinta del guerriero che emerge di quando in quando, se l'occasione è speciale. La stessa grinta che sfoggiava in campo, la stessa con la quale ha combattuto e vinto i due terribili infortuni ai legamenti nel 1981 e nel 1983. La stessa con cui teneva testa al suo presidente Berlusconi da coach del Milan, plurivincente eppure criticato dal suo datore di lavoro. Il suo faccione piace agli inglesi, così come il suo pragmatismo intriso di cultura del lavoro e correttezza anglosassone. Fatica a sciogliersi anche davanti ai microfoni, con il corpo appesantito fasciato dalla maglia del Chelsea: «Qui mi trovo benissimo, è stata una stagione fantastica. La chiave? Le vittorie negli scontri diretti con il Liverpool, l'Arsenal, il Manchester, ci hanno dato consapevolezza. Abbiamo praticato un football diverso, fatto di possesso e voglia di imporsi attraverso il gioco. Con questi giocatori è stato facile». Eppure, questa è una sua vittoria. Il Chelsea del munifico Abramovich per questa stagione non ha fatto la solita spesa al supermarket dei giocatori, ha investito sul coach e ha fatto bene. Zola arranca, Mancini lancia sciarpe alla moda, Capello amministra la nazionale ma da oggi in Inghilterra il nuovo monarca è Carletto da Reggiolo.