Ballardini e la Lazio senza stimoli

Laverità è che è difficile trovare risposte sicure, cioè razionali, a domande emotive, cioè irrazionali. Allargando il campo di indagine agli ultimi due anni, però, mi accorgo che il rendimento a singhiozzo della Lazio tutto è tranne che una novità. Non altrimenti si spiegherebbe, infatti, l'alternanza di tonfi e resurrezioni che ha caratterizzato questi ultimi 24 mesi. Oggi smidollata e domani irresistibile: la Lazio è così dai tempi di Delio Rossi, ed è stupefacente, semmai, notare come l'odio per Lotito abbia fatto dimenticare a quanti ancora osannano l'ex-tecnico biancoceleste la duplice catastrofe del dodicesimo posto nel campionato 2007-2008 e del decimo in quello successivo (con Pandev e Ledesma...). Ne consegue che la Lazio è così perché così sono i suoi giocatori, i quali danno il meglio di sé solo se pungolati da forti stimoli esterni. È stata l'accidia esistenziale a far disciogliere nell'acido della routine trionfi quali le vittorie nei derby con la Roma, la conquista della Coppa Italia e della SuperCoppa, o il successo sullo stimolante Palermo dell'ex tecnico. Per interrompere questo andazzo ci vorrebbe un allenatore capace di motivare i propri allievi sempre e comunque. Ma né l'ultimo Rossi né Ballardini, purtroppo, ne sono stati capaci. Oltre al fattore-Lotito, minimo comun denominatore dei rispettivi fallimenti, Rossi e Ballardini sono gemellati da un sacco di altre magagne, a cominciare dall'incapacità a gestire le rivalità interne tradita dal ricorso alla vera causa materiale di molti dei disastri laziali: il «tridente». Il male cominciò con Pandev-Bianchi-Rocchi e tutto potrebbe adesso finire malissimo con Zarate-Floccari-Rocchi. Ma possibile che noi uno come Mazzarri non riusciamo proprio a prenderlo?