Il cannibale Merckx diventato «normale» solo nel doping

Fua ridosso dei ventitré anni che sulle strade d'Italia firmò l'atto di nascita di quella che verrà definita la «rivoluzione copernicana» del ciclismo. Per il ciclista belga, quel 1968 coincise con l'affermazione al Giro, la prima in una grande corsa a tappe. Due anni prima aveva già lasciato il segno sul traguardo di Sanremo. Di segni, su quel traguardo, ne lascerà in totale sette. Nel 1967 aveva vinto il titolo mondiale. Ne aggiungerà altri due. Nel Giro dell'esordio, il belga si aggiudicò quattro tappe e gran premio della montagna. Senza tattiche. Tanto meno strategie. Spingendo sui pedali dall'inizio alla fine, impressionando per la disinvoltura con cui era solito mantenere inalterate energie e freschezza dopo ogni attacco. Il battesimo del '68 fu profetico, poiché ad esso seguì il matrimonio, cinque vittorie in totale, le stesse nel Tour de France, con tre successi abbinati nella stessa stagione, gli anni pari del '70, '72 e '74. Nell'edizione del '73, il capolavoro, con la maglia rosa indossata dalla prima all'ultima frazione. Quando alla fine della carriera si tirarono le somme, risultò che il professionista Eddy Merckx aveva maturato un capitale agonistico di 445 successi, con 76 giorni in maglia rosa, 96 in maglia gialla. Fu definito «cannibale» per come inghiottiva gli avversari. Suscitò, fatalmente, più rispetto che simpatia. Incappò in due episodi di doping, nel '69, al Giro, e nel '73, nel Lombardia. In entrambi i casi per uso di stimolanti. Pianse, e fu una parentesi di normalità, la sua innocenza. Soprattutto al Giro, furono in molti a credergli. Tra essi, Felice Gimondi: fu il primo a consolarlo, rifiutando il giorno dopo la maglia rosa e indossando quella di campione d'Italia.