Fair play

Succede che il brasiliano Amauri sia in Italia da sei anni ma viene scoperto il giorno in cui batte da solo la Fiorentina segnando due reti e procurandone un'altra. Improvvisamente tutti si affrettano a consigliarlo a Donandoni perché si sbrighi a convocarlo per la nazionale prima che lo faccia Dunga. Si è sempre detto, almeno negli ultimi tempi, che avevamo abbondanza di attaccanti ma ora pare che ci sia assoluta necessità di arruolare questo brasiliano del quale pochi si erano accorti se ha giocato una stagione nel Piacenza e tre nel Chievo prima che Zamparini lo chiamasse al Palermo battendo il Milan, che aveva preferito puntare su un altro brasiliano, Oliveira. Sulla questione di Amauri in Nazionale io rimango dello stesso parere a suo tempo espresso su Mauro Camoranesi, un argentino che, come Amauri, era transitato da Verona (sponda Hellas) prima di essere scoperto dalla Juventus e da Lippi. So perfettamente che altri paesi si comportano con maggiore disinvoltura di noi ma io credo che, a prescindere dai regolamenti, in nazionale debbano giocare i prodotti del nostro calcio e, per quanto riguarda le altre discipline, del nostro sport. Quindi lascerei Amauri al Brasile qualora Dunga decidesse di convocarlo e non gli chiederei di scegliere. Più importante è invece capire perché può succedere che un giocatore impieghi sei anni per dimostrare completamente il suo valore. È vero che negli sport di squadra situazioni del genere si possono verificare per ragioni indipendenti da quel processo di maturazione che tutti gli uomini, non solo gli atleti, compiono in tempi diversi. Anche perché tra il giocatore ed ilo successo c'è un rete di procuratori, dirigenti, allenatori nella quale si rischia di rimanere impigliati. Un po' diverso, ma fino ad un certo punto, è il caso di Kakà, al quale, come ad Amauri, è bastata una partita, quella di Champions con l'Anderlecht, per passare da semplice fuoriclasse, qualifica che gli era già stata assegnata, a «miglior giocatore del mondo», secondo l'entusiastica definizione di Carlo Ancelotti. Con grande soddisfazione, immagino, di Silvio Berlusconi che così non sarà più obbligato ad acquistare Ronaldinho per accontentare i tiufosi del Milan, che gli avevano rimproverato, soprattutto dopo la sconfitta nel derby, una campagna acquisti un po' troppo economica. Le due storie, quelle di Amauri e di Kakà, fatte le debite proporzioni ci insegnano due cose. Una ci ricorda e conferma la bontà della scuola brasiliana che più di ogni altra sa produrre campioni che si divertono divertendo contemporaneamente il pubblico. Inoltre ci ammonisce che è almeno azzardato costruire su una prestazione, per quanto entusiasmante e brillante, un giudizio definitivo che invece avrebbe bisogno di altre verifiche. È vero che Kakà aveva già fornito abbondanti prove del suo valore ma, come ho già detto, il passaggio da fuoriclasse a numero uno richiede un momento di riflessione. Così come Amauri dovrà fornire altre prestazioni prima di essere accolto non tanto in Nazionale, che personalmente io avrei rifiutata anche a Pelè, ma nel club dei grandi protagonisti del nostro calcio.