il maxi processo

Casamonica re pure in prigione a Rebibbia

Valeria Di Corrado

«I Casamonica a Rebibbia fanno il bello e il cattivo tempo. Se la comandano con le guardie». La vita da boss che conducevano quando erano a piede libero - come dimostrano le auto fuori serie e le ville arredate con stucchi, marmi, soprammobili kitsch, drappeggi e sedie stile Luigi XIV - i componenti del clan sinti continuavano a farla anche da reclusi. Il carcere di Roma, infatti, era per loro una prigione «dorata», in cui il loro potere mafioso riusciva a intimorire anche gli agenti della polizia penitenziaria. Lo ha spiegato chiaramente Massimiliano Fazzari, testimone di giustizia nel maxiprocesso al clan dei Casamonica, partito dall’indagine «Gramigna» dei carabinieri di Frascati - che aveva portato a due ondate di arresti: il 17 luglio 2018 e il 15 aprile scorso - e che ora vede 44 imputati con accuse che vanno dall’associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga, all’estorsione, all’usura e alla detenzione illegale di armi. Nell’udienza di ieri Fazzari è stato sentito come testimone, in video-collegamento da una località protetta, ripreso di spalle mentre rispondeva alle domande del sostituto procuratore di Roma Giovanni Musarò. Il «pentito», prima di parlare dei suoi rapporti con il clan, ha ripercorso le sue origini: «La mia è una storica famiglia di ’ndrangheta, in rapporti con i Pesce e i Bellocco di Rosarno, e i Mancuso di Limbadi. Mio padre era affiliato, ma finché era vivo non volle che anche io fossi "battezzato" dalla ’ndrangheta. Io ho sempre vissuto nel Lazio. Un giorno mio zio Esterino mi propose il "battesimo" e per tranquillizzarmi mi disse: "A Roma i morti non interessano a nessuno. Fanno rumore, alzano solo l’attenzione delle forze dell’ordine. Non è come in Calabria. Può capitare qualche gambizzazione". Io rifiutai la proposta, perché non escluse la possibilità di dover uccidere. Non mi interessava comandare. Quando mi servivano soldi, vendevo cocaina e marijuana». «Una volta però - ha ricordato Fazzari ai giudici - mi sono trovato in difficoltà perché uno era scappato con la droga. Tramite la mia ex compagna Noemi Ranieri, che era amica della moglie di Massimiliano Casamonica (Debora Cerreoni), gli chiesi un prestito di mille euro, pattuendo il 20% di interessi. Era il 2011. Andai nella loro villa di vicolo di Porta Furba». A distanza di tre anni, tra fine 2014 e inizio 2015, Fazzari venne arrestato e si ritrovò a Rebibbia insieme a Massimiliano Casamonica e al fratello Giuseppe. «Uno spesino (colui che fa la spesa) mi portò un foglietto con su scritto: "Tempo 2 o 3 giorni e sali sopra da me". Firmato Massimiliano. Il giorno dopo le guardie mi spostarono al reparto G12, dove c’erano i Casamonica. Loro se la comandavano in carcere. Addirittura, durante l’ora d’aria, era Massimiliano che decideva chi doveva giocare a tennis con lui. Una volta mi invitò a mangiare in cella con lui e mi fece una mezza minaccia: "Prima che tu vai a parlare con qualcuno, noi già lo sappiamo"». Un avvertimento chiaro. Fazzari, infatti, in quel periodo aveva iniziato a scrivere delle lettere al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per chiedere di avviare una collaborazione. I muri di Rebibbia, però, a volte «parlano». Il sospetto di Fazzari è che la «voce» si arrivata proprio alle orecchie dei Casamonica. «Giuseppe aveva un lavoretto in carcere - ricorda il «pentito» - era stato incaricato di raccogliere con il carrello le lenzuola sporche dalle varie celle. Un giorno le guardie mi dissero di andare a portare le mie al reparto G9, visto che non erano passati a ritirarle. Lì ci trovai Giuseppe Casamonica. Prima guardò alle mie spalle per vedere se ero stato accompagnato da una guardia; accortosi che ero solo, mi fece un ghigno minaccioso, perché loro già sapevano che volevo collaborare. Me lo confermò anche la mia compagna, riferendomi che se la sarebbero presi con mia madre. Io, a quel punto, buttai le lenzuola per terra, senza avvicinarmi, e me ne andai». Anche fuori di galera il clan sinti aveva i suoi appoggi. «Erano agganciati con le caserme - ha spiegato Fazzari al collegio - avevano dritte sui movimenti delle guardie e si regolavano per lo spaccio. Un giorno Simone Casamonica mi disse che aveva rapporti con i finanzieri e di essere amico di uno di un finanziere in particolare». SESSO, BOTTE E TRAFFICI VARI NELL'AREA VERDE DI REBIBBIA L’area verde di Rebibbia, dove avvengono i colloqui tra i carcerati e i loro parenti, è una «zona franca» dove può accadere di tutto. Lo ha confermato ieri ai giudici del Tribunale di Roma Massimiliano Fazzari. L’episodio descritto ha come protagonisti Debora Cerreoni e il marito Massimiliano Casamonica, in quel momento recluso. Qualcuno in carcere gli aveva spifferato che la donna dalla quale aveva avuto tre figli (una «gaggia», termine dispregiativo da loro usato per indicare i non rom) lo stava tradendo. Per questo, una volta trovatasela di fronte nell’area verde del penitenziario, Casamonica l’aveva picchiata, senza che nessun agente della penitenziaria se ne accorgesse. Dopo quell’ennesima violenza, la Cerreoni aveva deciso di scappare a Bologna e denunciare tutto, diventando anche lei collaboratrice di giustizia. Il testimone, su domanda del sostituto procuratore Giovanni Musarò, ha spiegato: «Forse c’è un punto cieco per le telecamere nell’area verde». D’altronde questo «buco nero» era già emerso dall’interrogatorio di Salvatore Fragalà (dell'omonimo clan) del 30 ottobre 2017, sempre con lo stesso pm: «Nell’area verde di Rebibbia nuovo complesso, è un parco. Le guardie stanno dentro il gabbiotto, non passano... non vengono mai. Tante volte abbiamo trovato noi dei detenuti che facevano sesso (...) Quindi lei può immaginare, lì puoi fare qualunque cosa. Io scendo con una busta, dentro ci può stare qualunque cosa e io la dò. La famiglia non viene perquisita, come a Rebibbia reclusione, la stessa cosa: hanno trovato stecche di sigarette nei pacchi in uscita».