giustizia

Ecco perché quella di Mafia Capitale "fu vera mafia"

Valeria Di Corrado

La Corte d'Appello di Roma non se l'è sentita di discostarsi dal "solco interpretativo" tracciato dalla Corte di Cassazione in fase cautelare sull'inchiesta Mafia Capitale. Questa, in sostanza, la ragione che ha portato i giudici di secondo grado a riformare la sentenza di primo grado, certificando la mafiosità dell'associazione capeggiata da capeggiato dall'ex terrorista "nero" Massimo Carminati e dal ras delle cooperative "rosse" Salvatore Buzzi. Nelle motivazioni alla sentenza pronunciata l'11 settembre scorso nell'aula bunker di Rebibbia, la III sezione della Corte d'appello di Roma spiega perché ha ribaltato il verdetto emesso a luglio 2017, nella stessa aula, dalla X sezione del Tribunale. "La forza dei principi di diritto espressi dalla Corte di Cassazione non può essere ignorata quando la Corte, pur nella fase cautelare e quindi a livello di indizi, si è pronunciata sui medesimi fatti che sono oggetto del successivo giudizio di merito. È ovvio che la decisione assunta dalla Cassazione in quella sede non può mai avere valore di giudicato. Ma fermo restando la piena autonomia del giudice di merito di accertare i fatti e applicare il diritto, ove i fatti accertati in questa sede di appello dovessero corrispondere a quelli considerati dalla Cassazione nella precedente fase cautelare, non potrebbe questa Corte (e non poteva il Tribunale) non tener conto dei principi di diritto sulla configuarabilità dell'associazione di stampo mafioso che nell'ambito di questo provvedimento la Cassazione ha affermato seguendo un consolidato solco interpretativo". "Sulla base delle intercettazioni telefoniche e ambientali, dei servizi di osservazione e dei documenti acquisiti, nonché delle deposizioni rese nel corso del dibattimento, la Corte – si nelle nella sentenza – ha ricostruito la responsabilità per i reati fine e ha accertato altresì che, nel periodo da settembre 2011 a dicembre 2014 (data degli arresti), Carminati, Buzzi e gli altri associati hanno agito con l'intimidazione del loro vincolo associativo , suscitando condizioni di assoggettamento e di omertà, sia nel settore del recupero crediti, sia nel settore amministrativo ed economico per l'acquisizione di appalti mediante corruzione e turbative d'asta". "Carminati – spiegano i giudici d'Appello –, che in passato aveva avuto stretti collegamenti con la Banda della Magliana e i Nar, e aveva relazioni con esponenti di associazioni mafiose (Senese, Diotallevi, Fasciani, Denaro), il 21 giugno 2002 aveva definitivamente scontato le sue pene carcerarie e aveva ripreso i suoi contatti con le vecchie conoscenze, fra cui Riccardo Brugia (con cui iniziò a frequentare il distributore di corso Francia, ndr) e i due esponenti dell'estrema destra Riccardo Mancini e Fabrizio Testa". Furono Mancini (ora defunto) e Testa a far incontrare Carminati e Buzzi, che "quindi trovarono subito un'intesa e diedero luogo a un'unica associazione". Negando la sussistenza di un'unica associazione, il Tribunale - fanno notare i colleghi di secondo grado - ha dato rilievo alla situazione di estraneità, rispetto al gruppo di corso Francia, di Buzzi e dei suoi collaboratori. (...) Al contrario va rivelato che ogni strategia fu condivisa tra Buzzi e Carminati, anche se Buzzi non si interessò alle vicende di corso Francia. Il fatto che Buzzi non era parte delle attività svolte al distributore non esclude infatti l'esistenza di un'unica associazione, perché non è necessario che tutti gli associati sappiano tutto ed è pure possibile che uno dei vertici non si interessi di un settore dell'associazione. Anche se operativamente rimasero distinte le attività dei due gruppi di corso Francia e via Pomona, l'unicità dell'associazione fu voluta da Carminati e Buzzi che diedero vita a un'unica organizzazione da loro diretta, pur rimanendo distinti i fini particolari perseguiti dai due gruppi originari e i relativi reati-fine". "A parte l'attività presso il distributore di benzina che Carminati continuò a curare da solo, la scelta di Carminati e Buzzi di concentrare l'attività associativa nel settore degli appalti pubblici (dapprima riservato a Buzzi), fu il risultato - si legge nella sentenza di secondo grado - delle scelte strategiche della nuova associazione (al cui vertice si pose Carminati). La struttura delle cooperative di Buzzi fu quindi utilizzata per la perpetrazione di una pluralità di reati che assicurarono ai partecipanti notevoli vantaggi economici. L'azione criminale dell'associazione iniziò a svolgersi parallelamente, ma autonomamente rispetto all'attività di impresa delle cooperative. In tal modo le cooperative, che avrebbero dovuto perseguire scopi sociali, furono utilizzate da Carminati e Buzzi per raggiungere obiettivi personali". Ossia per arricchirsi. "Il fine di Carminati nel fondere il suo gruppo con quello di Buzzi fu quello di inserirsi in un sistema corruttivo da cui poteva trarre profitto (...) Lo scopo della cooptazione di imprenditori da inserire nell'associazione per acquisire il controllo del settore degli appalti fu realizzato appieno da Carmianti proprio con Buzzi, fondatore e presidente della Cooperativa 29 Giugno. (...) All'associazione diedero un notevole impulso i rapporti di amicizia e militanza politica di Carminati con funzionari e politici nel consiglio comunale e regionale, in Ama e nell'Ente Eur spa. (...) Dato l'assunto ruolo di vertice, Carminati cominciò a recarsi ogni settimana nella sede delle cooperative di via Pomona per partecipare alle riunioni operative dell'associazione, continuando nel contempo i suoi affari illeciti a corso Francia, caratterizzati dalla sua capacità di intimidazione". "Ai fini della sussistenza della associazione mafiosa, non è rilevante né il numero modesto delle vittime né il limitato contesto relazionale e territoriale. Non può escludersi il carattere mafioso perché non sono elementi costitutivi né il controllo generale del territorio né una generalizzata condizione di assoggettamento e omertà della collettività. Carminati conferì forza di intimidazione e Buzzi conferì il collaudato sistema di corruttela e prevaricazione". Così i giudici della Corte d'Appello nelle motivazioni della sentenza con cui hanno riconosciuto il 416 bis.  Nel documento di 590 pagine i giudici della terza sezione della corte d'Appello scrivono che "elementi di fatto a conferma del carattere mafioso dell'associazione possono trarsi anche dalla protezione garantita ad imprenditori e dal successivo inserimento nella loro attività con un rapporto caratterizzato dalla gestione di affari in comune". Per quanto riguarda il carattere dell'omertà i giudici affermano che "nel settore della pubblica amministrazione nessuno, e nemmeno gli imprenditori che avevano rinunciato a gare di appalti, presentò atti di denuncia o manifestò dissenso. Questa condizione di assoggettamento e di omertà derivante dalla forza intimidatrice espressa dall'associazione emerse soltanto grazie alle intercettazioni telefoniche", scrivono i giudici.