La morte di Angelotti non fu casualità ma vendetta

Una (tentata) rapina in una notte romana di due anni fa, una sparatoria (vera) che lascia sull’asfalto il corpo senza vita di Angelo «er Giuda» Angelotti, una (presunta) valigetta piena di gioielli mai ritrovata e un’indagine (zoppicante) che è riuscita nel mirabile intento di mettere d’accordo accusa e difesa. Sembra non avere mai fine il «romanzo criminale» che lega la Città Eterna alla banda della Magliana: la morte di Angelotti - che nel 1990 «portò a dama» Renatino «Dandy» De Pedis - potrebbe infatti non essere il frutto di una tentata rapina finita a pistolettate come in un poliziottesco anni ’70, ma la vendetta (servita fredda) per la morte di De Pedis stesso, ammazzato in pieno centro proprio grazie alla soffiata di Angelotti e poi sepolto per anni nella basilica di Sant’Apollinare. I giudici d’Assise d’appello infatti hanno disposto, su richiesta del procuratore generale Otello Lupacchini - che fu giudice istruttore ai tempi della banda - di sentire in aula (in un processo d’appello con rito abbreviato che, di fatto sta sostituendo il primo procedimento) i due agenti della mobile che curarono l’indagine, due agenti della scientifica che facevano parte del team che esaminò la scena del crimine e due fratelli Polimadei che quella presunta rapina la subirono, rispondendo a colpi di Smith e Wesson. Colpi che uccisero Angelotti e ferirono entrambi i suoi complici appostati sul furgoncino, ma che comunque, in primo grado, furono considerati dalla Corte come legittima difesa. Le nuove audizioni dei testi aprono ora porte inattese (nello stesso giorno in cui si è discusso della libertà che potrebbe essere restituita a Marcello «il bufalo» Bonafigli). Porte che potrebbero fare luce su un omicidio ingiallito dal tempo e su una rapina (forse) creata ad arte per nascondere una vendetta a lungo desiderata. O forse, semplicemente, come dice l’avvocato Naso «è la prova che il primo processo sulla morte di Angelotti è stato istruito malissimo».