Adesso Roma dica basta ai progetti faraonici

Prima di dire che la manovra da 24 miliardi "punisce Roma" sarà meglio pensarci, e soprattutto leggerla nella sua interezza: cosa che non è ancora possibile e la sensazione è che non tutte le caselle ed i numeri siano ancora al loro posto. Detto questo, vediamo se e dove la stretta colpisce più di altri la Capitale. La voce più importante è quella dei 300 milioni di euro l’anno che il governo si impegna finalmente, con una legge dello Stato e non più con faticose trattative tra Campidoglio, palazzo Chigi e via Venti Settembre, a versare da qui al 2046. Si tratta in conto capitale di 10,8 miliardi, che dovrebbero coprire esattamente – anzi, con qualche avanzo - il debito pregresso del comune, liberando la giunta dal vincolo degli interessi e dall’impossibilità di firmare un bilancio che guardi al futuro (e al presente). I milioni concessi in un primo tempo da Giulio Tremonti erano 200 l’anno; ed è stato bravo Gianni Alemanno a strapparne altri cento anziché abbandonarsi alle rituali lamentele. Tanto, che di questi tempi il Tesoro stia raschiando il barile, lo hanno capito tutti. Certo, mancano all’appello 200 milioni rispetto a quanto ottenuto nel 2008-2009, e che era stato nuovamente concordato qualche tempo fa. Ma che era anche, non più tardi di due settimane addietro, scomparso dall’orizzonte. Ora i soldi ci sono: non tutti quelli attesi, ma almeno certi. Con un flusso simile garantito dallo Stato il comune ha due scelte: o reperire per altre vie i 200 milioni mancanti, oppure offrire l’introito (ripetiamo, coperto da una legge) a garanzia di un ulteriore mutuo. Sul quale dovrebbe ovviamente pagare un interesse, che però in questo periodo e con il rating A+ del Tesoro italiano non dovrebbe essere particolarmente oneroso. Spetta ai tecnici decidere; sempre che non vi sia qualche clausola contraria del governo. Diversamente il Campidoglio ha a disposizione le opzioni messe in campo da Tremonti. Tagli alle spese (e tra poltrone e consulenze è senz’altro doveroso risparmiare, come ha dimostrato proprio Il Tempo); o l’introduzione di imposte che non si scarichino a loro volta sui romani. Da questo punto di vista l’idea di una tassa di soggiorno fino ad un massimo di 10 euro per chi pernotta in albergo non ci sembra scandalosa. Quella tassa esisteva già dal 1958 al 1989, e non risulta che in quei trent’anni il turismo a Roma languisse; anzi. Esiste in quasi tutta Europa e negli Usa. Dove è a vari livelli. In base ad una legge approvata il 9 settembre dal Senato americano i turisti ai quali non è richiesto il visto pagano 10 dollari per entrare nel Paese con l’adesione al programma Esta, Electronic System for Travel Organization, già in vigore gratuitamente da alcuni anni. Poi, a seconda della destinazione, trovano un’imposta di soggiorno che varia a seconda che si trovino in California o a New York: qui c’è una Hotel tax salata, proporzionale alla spesa, ed una Occupancy tax in cifra fissa da 3,5 dollari al giorno. L’idea di Alemanno di proporzionare la tassa alla categoria dell’albergo, riservando ovviamente i 10 euro per chi va al St. Regis o al De Russie, e contributi minori in relazione alle stelle, ci sempra più che sopportabile. Secondo le stime, il contributo potrebbe fruttare 30 milioni l’anno. Ma soprattutto, perché stracciarsi le vesti quando in molti alberghi e ristoranti è tuttora in auge la famigerata maggiorazione per «servizio» o addirittura per «coperto»? Non è quello una gabella peggiore e meno trasparente - anche perché non si sa in quali casse finisca, probabilmente non in quelle pubbliche – ai danni di turisti ed ospiti, stranieri, italiani e romani? Da questo punto di vista il problema di Roma non è tanto un’imposta con un tetto limitato, ma il cattivo rapporto tra prezzo e qualità di molti locali. Mancherebbero all’appello circa 150 milioni l’anno. Il trasferimento a comuni e regioni di beni demaniali è cosa fatta: possibile che con immobili e beni che Roma ha, o riceverà, non ce ne siano per un patrimonio complessivo di 2 miliardi, tali da garantire una rendita di 100 milioni al 5 per cento? O di un miliardo per 50 milioni? Siamo quasi ai 500 milioni iniziali. Il resto potrà venire non solo dai risparmi sugli sprechi, ma anche dalla rimodulazione di infrastrutture pensate in anni migliori, o con criteri di mani bucate. L’idea di non far passare sotto al centro storico la futura linea D della metropolitana va in questa direzione; stessa cosa quella di progettare da lì in avanti solo metrò di superficie. La Capitale ce la può fare, se rinuncia ad alcuni progetti faraonici: la grandezza (e la bellezza di Roma) sta altrove.