tormenti democratici

Elly Schlein per salvarsi è costretta ad aggrapparsi a Paolo Gentiloni

Augusto Minzolini

Nel Pd non ci credono ma ci sperano. Per cui nel caso il sogno diventasse realtà vogliono essere pronti. Così nello stato maggiore di Elly Schlein reduce dall’«estate militante», a parte i più sobri intellettualmente, c’è chi pensa davvero che vuoi la congiuntura economica sempre più complicata, l’assenza di risorse per la legge di bilancio, l’emergenza immigrazione e l’«avversione» di buona parte dell’attuale establishment europeo (copyright Giorgia Meloni) anche un governo forte nei numeri di fronte alle pressioni di una campagna «contro» sempre più selvaggia potrebbe ad un certo punto cedere e cadere. L’esempio, ovviamente, va alle vicende che portarono alla fine dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi. Solo che tutte queste congetture, ragionamenti, analisi si scontrano su un dato che è la vera forza di Giorgia Meloni e il punto debole del Pd e dell’intera opposizione: l’assenza di un’alternativa, di un personaggio che possa rappresentare un nome credibile per Palazzo Chigi sia per lo schieramento di sinistra, sia per le nomenklature europee. E dato che da quelle parti c’è poca fantasia e il Pd «radicalizzato» non ha nomi spendibili si è tornati al punto di partenza di qualche anno fa: «Ricorriamo all’aristocrazia - è la confidenza di uno degli esponenti più influenti della segreteria del Pd - al Conte di Filottrano, Cingoli, Macerata e Tolentino».

Non si tratta di un nobile spagnolo dai mille cognomi, né è parente della contessa Serbelloni-Mazzanti-Viendalmare dei film di Fantozzi. Sono solo i titoli di nobiltà dell’ex-premier e attuale commissario Ue, Paolo Gentiloni. Un nome che che si sposa con il profilo dell’attuale Pd: duro e puro per sintonizzarsi con il grillismo, ma con una forte impronta radical chic e una fiala di sangue blu. Quindi non c’è nulla di meglio che accompagnare una segretaria con cittadinanza statunitense, naturalizzata in Svizzera e studi a Lugano, con un candidato Premier nipote del cameriere di cappa e spada di Pio XI. Contro l’underdog dopo il partito dello ZTL, avremo quello della «erre moscia» e dei quarti di nobiltà. Ma, soprattutto, il candidato di quella maggioranza europea che Giorgia Meloni ha tentato di mettere in discussione e che Matteo Salvini non nasconde di detestare. Le manovre di queste settimane a Bruxelles, quella sorda ostilità che dalle parti di Palazzo Chigi fa gridare al complotto, sono la rappresentazione di questa realtà. Per questo non bisogna meravigliarsi se tutti i leader di centrodestra, anche il mite Antonio Tajani, sparano un giorno «sì» e l’altro pure contro Gentiloni accusandolo di non difendere gli interessi dell’Italia.

  

Ma il commissario italiano a Bruxelles alla segretaria del Pd serve anche per altro. Dopo l’emarginazione dell’area riformista, la Schlein è nuda. Ha nomi buoni per l’«estate militante» ma con scarsa cultura di governo. Gente come Marco Furfaro o Sandro Ruotolo vanno bene per piazze, per gli scontri nei talk show, ma sarebbero degli alieni nella stanza dei bottoni. Senza Gentiloni la Schlein non ha un nome da presentare come alternativa al centrodestra, ma neppure da contrapporre a Giuseppe Conte in quello strano rapporto di alleanza-competizione che la lega ai 5stelle. E in assenza di un candidato che possa vantare un curriculum di governo è evidente che la Schlein rischia di consegnare la premiership dello schieramento di sinistra proprio a Conte. Sarebbe un boccone davvero indigesto per l’area riformista che comincia ad avere le scatole davvero piene dell’attuale leader del Pd. Ecco perchè il nome del Conte Gentiloni ricorre sempre più spesso in queste settimane. Fonte di sospetti per la premier e i ministri dell’attuale di governo. Àncora di salvezza - forse l’unica - per la Schlein.