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Regionali Lazio, su D'Amato la zavorra di dieci anni di fallimenti

Carlantonio Solimene
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«Azzeramento delle liste d'attesa». È scritto a pagina 20 del lungo e articolato programma di Alessio D'Amato per sostenere la sua candidatura a governatore della Regione Lazio ed è, probabilmente, il paradosso maggiore sulla strada dell'esponente Pd verso il vertice della Pisana. Sì, perché D'Amato è da quasi dieci anni il dominus della sanità nel Lazio, negli ultimi cinque da assessore, nei precedenti da «responsabile della cabina di regia regionale». Ed è curioso che a ripromettersi di porre fine a una piaga endemica del settore sia proprio colui che l'ha creata. O, per lo meno, che non ha contribuito a risolverla.

 

Non è l'unica idiosincrasia del documento. Anche quando D'Amato rivendica il pagamento dei fornitori «nei tempi giusti» rimuove i rilievi recentemente mossi dalla Corte dei conti al Rendiconto sull'esercizio finanziario 2021, quando si definisce «elemento di illegittimità» il fatto che a ricoprire il ruolo di «cassa sanitaria» sia LazioCrea. Una società, cioè, «che non rientra nel perimetro sanitario» e che, in realtà, era stata istituita con tutti altri fini.
Tecnicismi, d'accordo. Eppure sintomatici dello scoglio che D'Amato deve superare. Interpretare una «rivoluzione» - così possono essere definite le decine di interventi promessi nel programma, con tanto di investimenti indicati punto per punto- pur essendo l'assessore che più di tutti ha incarnato l'era Zingaretti nel Lazio.

Lui prova a cavarsela con una formula linguistica - «innovare nella continuità» - ma sembra essere perfettamente consapevole di come il ruolo di frontrunner di cui oggi è investito sia figlio quasi esclusivamente di due contingenze. La prima è il Covid e l'innegabile successo della campagna vaccinale nel Lazio. Non a caso, nel suo discorso al «The Hub» di via Marsala (sopra la stazione Termini) si vanta in ben tre occasioni di essere il volto regionale della sfida alla pandemia.

 

La seconda contingenza è la fuga in avanti di Carlo Calenda, che appoggiandolo ha di fatto «imposto» la candidatura al Pd. Sancendo, contestualmente, il divorzio dai Cinquestelle. È quest' ultimo un punto dolente per D'Amato. Che dice «le porte sono aperte fino all'ultimo» ma al tempo stesso ammette che «sono realista, a ore si presentano le liste, e quindi...». L'alleanza, dice lui, «è Conte a non averla voluta», «ma io mi rivolgo a tutti, anche agli elettori dei 5 Stelle, e non è vero che senza di loro non pos siamo vincere. Nel 2018 eravamo esattamente nella stessa situazione eppure abbiamo prevalso».

 

Sì, perché l'abc di ogni campa gna elettorale - e in sala c'è anche lo spin doctor Claudio Velardi- è dare per certa la vittoria anche quando è altamente probabile. E poi mostrarsi compatti. Da questo punto di vista per un giorno il Pd prova a dare un'immagine meno litigiosa del solito. In sala c'è ovviamente Nicola Zingaretti e con lui tanti altri big, nazionali e locali. Da Andrea Orlando a Bruno Astorre, dalla coppia Cirinnà-Montino a Paolo Ciani di Demos, dal verde Filiberto Zaratti al renziano Luciano Nobili per arrivare a Beatrice Lorenzin e a pezzi della Giunta uscente, Massimiliano Valeriani e Alessandra Sartore. Tutti per uno, uno per tutti, sperando che la quantità faccia la differenza: «A mio sostegno ci sono sette liste rivendica D'Amato - una in più di quelle che stanno con Rocca». Che è un po' come vincere un'amichevole del calcio d'agosto. Non conta nulla. Ma vista l'aria che tira, vale la pena di accontentarsi.

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