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Italia bloccata, trent'anni di no: così il Paese ha fallito la sfida delle riforme

Pietro De Leo

Quasi un riflesso istantaneo, quello che porta la sinistra a dire no a qualsiasi riforma dell'architettura dello Stato, a meno che non sia la propria, ovviamente (ma la modifica del titolo V, nel 2001, non fu un grandissimo affare). E peraltro a corrente alternata, perché, per esempio, per il ddl Boschi del 2016 in quell'area si spaccarono. Comunque, la costante è quella di un atteggiamento di chiusura ad ogni tentativo del centrodestra di cambiare il funzionamento del meccanismo statale. L'inutile gazzarra che si è sollevata contro le parole di Berlusconi sul presidenzialismo è l'ultimo nodo di un filo rosso che parte dal 1994, quando il primo governo Berlusconi, con il Comitato Speroni (ministro leghista delle riforme di allora) provò ad avviare il confronto su come cambiare il funzionamento delle Istituzioni.

Dalla sinistra ci furono alcuni freni ma comunque quel governo cadde così presto, dopo appena sei mesi, per poter avviare un cantiere sostanziale. Resistette più a lungo la Commissione Bicamerale per le riforme, affidata a Massimo D'Alema, che lavorò tra il 1997 e il 1999. A quel tempo fu Berlusconi a staccare la spina e fu additato dalla sinistra come, di fatto, l'affossatore del progetto. Solo che lui, di converso, lamentava che era il blocco progressista a non accettare quelle proposte qualificanti che aveva provato a mettere sul tavolo.

  

Ecco l'elenco che Berlusconi scandì in un'intervista ad Avvenire, il 4 giugno di quell'anno: «Il presidenzialismo e i poteri del presidente eletto direttamente, l'applicazione del principio di sussidiarietà, i diritti di garanzia del cittadino». Poi si parlò di un'Assemblea Costituente, ma non se ne fece nulla, nemmeno in quel caso. Entriamo nella nuova legislatura, 2001-2006, e arriva il progetto di riforma costituzionale che il centrodestra approva alle Camere in coda al quinquennio. Ma che viene abbattuto dal referendum confermativo, quando già era entrato in carica il pericolante governo Prodi, dopo che la coalizione di centrosinistra era uscita vincitrice, di pochissimo, alle elezioni.

La sinistra si era tutta schierata per il no. Chi organizzava fiaccolate, chi stilava editoriali, chi, ovviamente, la buttava sul catastrofismo. L'allora presidente del Friuli, Riccardo Illy, così solleticava i timori collettivi: con la riforma del centrodestra, diceva, «si passerebbe da una repubblica parlamentare ad un premierato. Questo è uno stravolgimento che può portare a derive di tipo autoritario». Mentre Piero Fassino lanciava l'allarme contro lo «stravolgimento» della Carta. E un evento pubblico della coalizione del centrosinistra invocava il voto del no per evitare, addirittura, «lo sfascio dell'economia, della scuola, della sanità, delle istituzioni». Mancavano solo le cavallette, insomma.

Già, perché derive e stravolgimento sono, da sempre, le parole chiave dei detrattori delle riforme. E soprattutto dell'elezione diretta del Capo dello Stato. Un po' quello che si scatenò a fine 2008 quando Berlusconi, nuovamente tornato a Palazzo Chigi, lanciò ancora l'idea del presidenzialismo.«A noi l'idea del presidenzialismo non piace», tuonava il capogruppo al Senato del Pd Anna Finocchiaro. Mentre il segretario Pd dell'epoca, Walter Veltroni, osservava: «Se Berlusconi coltiva l'ambizione presidenzialista, sappia che noi siamo risolutamente contrari». Antonio Di Pietro, invece, la buttò su un grande classico, parlando di un'idea saltata in mente a Berlusconi «solo per attuare il piano di Licio Gelli», allo scopo di «eliminare il Parlamento, l'informazione e tutti i controlli, per assumere il potere in sé».

Insomma, un continuo flagello ideologico, mentre il Paese fa ancora i conti con farraginosità delle procedure legislative e governi deboli. Dal 1994 a oggi ce ne sono stati diciassette diversi. Nello stesso periodo in Germania hanno governato solo in quattro: Kohl, Schroeder, Merkel e Scholz. Nel frattempo l'affluenza alle Politiche in Italia è calata dall'86% del 1994 al 73% del 2018. Ma, per la sinistra, va sempre tutto bene.