il futuro del governo

Mario Draghi sotto attacco, il premier ha perso l'immunità

Carlantonio Solimene

Il ritornello del post Amministrative è lo stesso di quello che si recitava nelle settimane prima del voto: «È impossibile che Draghi cada». Perché c’è la guerra in Ucraina. Perché c’è lo spread. Perché c’è da realizzare le riforme imposte dal Pnrr. Perché c’è l’estate e dopo l’estate si entra nella sessione di bilancio. Perché chiunque si azzardasse a mettere in crisi il governo in un contesto del genere ne pagherebbe lo scotto in termini di consenso.

La politica, però, è quel territorio in cui puntualmente si verifica quello che si riteneva impossibile. O, semplicemente, quello che gli addetti ai lavori fanno passare per impossibile, ma magari è semplicemente l’indesiderato. Salvo attrezzarsi a metterci una pezza quando ciò che era impossibile fino al giorno prima accade il giorno dopo. Il punto è: fino a quando Matteo Salvini e Giuseppe Conte - i due leader che maggiormente hanno pagato nelle urne l’appoggio all’esecutivo - potranno tirare la corda senza romperla? Finora, è vero, gli ultimatum lanciati dai due ex soci del governo gialloverde hanno avuto il fiato corto. Il segretario della Lega ha rinviato a settembre la resa dei conti, quando invece, non si preoccupò di aprire la crisi del primo governo di «Giuseppi» in pieno Ferragosto. Il capo dei 5 stelle, a sua volta, ha promesso fuoco e fiamme pur di bloccare l’invio delle armi all’Ucraina, ma in Parlamento i suoi si stanno attrezzando per addolcire la risoluzione che sul punto andrà votata il 21 giugno, per trovare una mediazione alla quale dire sì.

  

Tuttavia le crisi talvolta nascono per caso. Perché, nella gara a chi rivendica maggiori bandierine, il rischio che ci scappi l’incidente parlamentare si fa sempre più concreto. Lo si è evitato ieri, quando la Lega ha chiesto il voto segreto sul Csm ma alla fine tutti gli emendamenti sono stati bocciati e la riforma, faticosamente, dovrebbe incassare oggi il via libera finale. Ma, sempre oggi, si apre un’altra partita delicatissima. In commissione Bilancio alla Camera, infatti, partirà la discussione sugli emendamenti al dl Aiuti. Tra i quali c’è quello presentato dal Movimento 5 stelle per mettere i bastoni tra le ruote al sindaco di Roma Roberto Gualtieri e al suo progetto di costruire un termovalorizzatore nella Capitale. Cosa succederà se, come prevedibile, la modifica sarà bocciata? Davvero sarà la «linea rossa da non superare» come hanno sostenuto nelle scorse settimane autorevoli esponenti grillini? Davvero, come sostiene Marco Travaglio - una sorta di «spin doctor» di Conte - è preferibile un appoggio esterno? E quanto ci metterebbero gli altri partiti, dopo l’eventuale strappo grillino, a scendere a loro volta dal carro?

 

 

 

 

Draghi, finora, ha goduto di una sorta di immunità dagli attacchi. La sua autorevolezza internazionale - si è detto - è vitale in questo momento per l’Italia. I fatti, però, raccontano una storia diversa. Raccontano, ad esempio, che neanche «SuperMario» ha potuto niente contro l’ultima tempesta dello spread, attivata e poi bloccata dalla Bce, indipendentemente dal governo italiano. E raccontano che la stabilità, neanche in un contesto del genere, è un valore assoluto. La Francia, in fondo, ha appena affrontato incerte elezioni presidenziali. E in Gran Bretagna - un Paese assai più esposto dell’Italia nella crisi ucraina - gli stessi deputati conservatori non si sono preoccupati più di tanto prima di provare a sfiduciare, senza successo, il «loro» premier Boris Johnson.

D’altronde il tema della successione dovrà comunque porsi al massimo nel 2023. Anche dopo le prossime Politiche ci saranno progetti del Pnrr da «mettere a terra», mercati da affrontare, leggi di Bilancio da scrivere e, probabilmente, i cascami della guerra da gestire. «Abbiamo posto le condizioni affinché il governo vada avanti al di là di chi lo guiderà». Parole e musica di Mario Draghi a fine 2021, quando il sogno era di trasferirsi al Quirinale. E, in fondo, allo stesso premier farebbe più comodo passare da vittima sacrificale piuttosto che dover trattare per un anno con partiti sempre più scontenti. Persino il timore di perdere consensi è relativo. Nel precedente più vicino - quello del governo Monti - a pagare dazio nelle urne furono molto di più i partiti che sostennero l’esecutivo tecnico fino alla fine rispetto all’«irresponsabile» Forza Italia che staccò la spina. Anche in quel caso il ritornello era lo stesso: «Non succede». Ma se succede...