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Il vaffa di Beppe Grillo al giustizialismo travolge pure il Pd

Andrea Amata

Sull’intemerata di Beppe Grillo contro la magistratura, che indaga il figlio Ciro per stupro, e la ragazza, su cui si sarebbe consumato l'abuso di gruppo, stiamo assistendo ad un silenzio pudibondo delle femministe, quelle con il pedigree progressista, che di solito emettono gemiti censori su ogni episodio che possa evocare un privilegio riconosciuto all’universo maschile o una narrazione fallocentrica.

Nel videomessaggio l'istrione Grillo era posseduto da un furore paterno che scaglia la sua collera sulla vittima, una ragazza di 19 anni, rea di aver denunciato i presunti aguzzini otto giorni dopo i fatti contestati nel tentativo di minarne la credibilità. Una requisitoria straripante rancore, verso gli inquirenti e la vittima, ma anche ignoranza perché la legge vigente estende a dodici mesi il periodo entro il quale è possibile denunciare una violenza sessuale. La ratio della normativa tiene conto del calvario psicologico della vittima di stupro che, prima di metabolizzare la violenza, affronta un tormento che come un tarlo ne divora la struttura interiore. 

  

Tuttavia, l’ex comico ha inflitto alla giovane vittima un patimento aggiuntivo, liquidandola come consenziente e alludendo ad un'insaziabilità sessuale, avendo appagato l'istinto erotico dei quattro ragazzi indagati per stupro. Grillo si ribella alla gogna mediatica, a quel metodo che anticipa la condanna per reati ipotizzati e non sanzionati, che ha usato dal suo debutto politico contro i suoi bersagli, facendone la cifra del gesto politico dei Cinque Stelle. Oggi, che il collare della vergogna mediatica viene applicato al suo rampollo, inveisce contro un metodo, che egli stesso aveva sdoganato, e una categoria, quella dei magistrati che aveva sempre magnificato come operatori infallibili dell'igiene morale.

Nel camaleontismo di Grillo annotiamo un'ulteriore metamorfosi: da teorico del tribunale del popolo a interprete del ruolo del giudice monocratico che assolve il figlio dall'accusa di abuso sessuale. La capriola dal giustizialismo colpevolista al garantismo innocentista, così come l'analoga acrobazia dall'acclamazione alla deplorazione del potere giudiziario, sono sintomi di una tardiva e sospetta resipiscenza, la cui autenticità è compromessa da una faccenda giudiziaria che coinvolge il figlio del fondatore del MoVimento 5 Stelle. «Non è vero niente», queste le parole sbraitate da Grillo per corroborare la versione innocentista, ma a differenza della sua biografia, che documenta l'infamante e sguaiato urlo giustizialista con l'indizio tramutato in prova inconfutabile, è il nostro stato di diritto che proclama l'innocenza di suo figlio fino al terzo grado di giudizio. E nel procedimento giudiziario che si accerta quella verità che il grillismo ha sempre negato con i verdetti sommari affidati ad un metaforico plotone del «Vaffa».

Un tratto di coerenza si riscontra nel padre dei grillini: la viltà dell'aggressione mediatica, ieri per accanirsi sull'indagato di turno, offrendone l'immagine al pubblico ludibrio, ed oggi nell'invocazione della clemenza per il proprio figlio, screditando la giovane vittima del presunto abuso. L'imbarazzo del Pd è palpabile e la salomonica dichiarazione del leader in pectore del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte attesta un'ambiguità non tollerabile sulla vicenda. D'altronde, se ti proponi di "rifondare" un soggetto politico significa diagnosticarne disfunzioni a cui si vuole porre rimedio, ma la mancanza di una netta dissociazione dall'invettiva delirante dell'Elevato smorza le velleità dell'ex premier Conte.