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Covid, Mario Draghi all'inglese sui vaccini: dare priorità alle prime dosi

Franco Bechis

Ieri nella prima giornata dei lavori del Consiglio di Europa ha fatto il suo debutto da premier italiano Mario Draghi. E a leggere le poche righe del suo intervento mandato in sintesi dal portavoce di Palazzo Chigi, avrebbe fatto la voce grossa con gli altri Capi di Stato. Sostenendo che non si può essere tolleranti con i produttori di vaccini che non stanno rispettando i tempi di consegna all'Unione europea: “le aziende che non rispettano gli impegni non dovrebbero essere scusate”, ha detto Draghi. Non ho idea che effetto abbia avuto una tiratina d'orecchi come questa, anche perché il pasticciaccio che sembra emergere dalla Ue è quello dei contratti firmati da Ursula von der Leyen con le case farmaceutiche, più che l'eccesso di tolleranza verso i ritardi nelle consegne che più o meno tutti i fornitori stanno accusando. Se nei contratti non ci sono penali previste sul calendario delle consegne, c'è ben poco da fare perché la voce debole o grossa conta assai poco: servirebbero penali da fare scattare, pagamenti da ritardare che fanno ben più male delle tiratine d'orecchi. 

L'idea gettata lì dal premier italiano è un pizzico più forte e forse è strada percorribile: ha ipotizzato il blocco delle esportazioni dalla Ue dei prodotti delle case farmaceutiche “non solo nel periodo in cui non rispettano gli accordi, ma anche per un certo periodo dopo che riprendono a rispettarli”. E ha pure proposto di “esplorare opzioni per acquistare altri vaccini al di fuori dell’Unione Europea”, invitando ad usare “cautela prima di lanciare progetti troppo ambiziosi di distribuzione dei vaccini a paesi terzi”, condividendo “le ragioni etiche e geopolitiche di questi piani, ma in Europa siamo ancora troppo indietro con le campagne nazionali e rischiamo di avere un problema di credibilità”.

  

Il premier italiano ha anche fatto balenare ai colleghi la possibilità di seguire la strada percorsa fin qui dal collega britannico Boris Johnson, invitando “a riflettere sulla possibilità di dare priorità alle prime dosi di vaccino, per espandere più rapidamente la copertura vaccinale della popolazione, come sostiene la recente letteratura scientifica”. Non è un segnale incoraggiante: significa che Draghi ha ben presente la situazione italiana e la difficoltà che c'è in questo momento di sbloccare le forniture. Non ci sono le dosi necessarie per dare in tempi ragionevoli agli italiani una immunità larga, e di fronte all'emergenza si ipotizza di usare tutte le forniture che ci sono per allargare la platea di chi riceve la prima dose del vaccino, ritardando quindi l'appuntamento con la seconda dose.

E' un rischio che Draghi non vuole assumere da solo, e che vorrebbe diventasse decisione comune dell'intera Europa. Non so se la sua idea si è fatta largo fra gli altri paesi, ma ne dubiterei: come abbiamo documentato ieri l'Italia è al 18° posto su 27 paesi per vaccinati rispetto alla popolazione residente, e quindi la maggiore parte degli altri non ha la stessa drammatica emergenza che ci ha lasciato in eredità il governo di Giuseppe Conte. E soprattutto la comunità scientifica mondiale non è affatto così convinta della bontà della soluzione inglese o scozzese di ritardare la seconda dose dalla terza alla dodicesima settimana dalla prima. Primo perché non c'è alcuna esperienza ancora esaminabile sulla efficacia della immunizzazione lasciando per 12 settimane la popolazione solo con una dose di vaccino. Johnson sta facendo un esperimento di massa usando come cavia l'intera sua popolazione, e il rischio che tutti stanno correndo è davvero altissimo. Secondo perché una delle più importanti riviste del settore, The Lancet, ha appena pubblicato uno studio che sostiene l'esatto opposto: quei vaccini sono sicuri fornendo una immunità superiore al 90% se la seconda dose viene somministrata a 21 giorni dalla prima, ma se già passano 9 settimane ci sono evidenze negli studi di una riduzione al di sotto del 50% della immunità.

Lo studio - firmato da John F R Robertson, Herb F Sewell e Marcia Stewart con la collaborazione di tre università britanniche - mette in guardia anche da un ulteriore rischio: scendendo l'immunizzazione quella condizione della popolazione britannica potrebbe addirittura aiutare lo sviluppo di nuove varianti del Covid 19 che si adattano anche a quei vaccini. E sarebbe un disastro. Ieri sera ho chiesto una opinione al professore Roberto Burioni su questo tipo di dibattito pubblicato da The Lancet, e la sua risposta è stata di grande chiarezza: “Nella scienza ci sono le cose che si sanno e quelle che non si sanno. Efficacia del vaccino BNT dopo due dosi a 21 giorni la sappiamo perfettamente (ed è eccezionale) cosa succede con una sola dose no. Poi si può pure decidere di fare una dose ma è politica, non scienza”. Pensiamoci non una, ma due volte prima di seguire la strada inglese solo perché siamo con l'acqua alla gola.