il patto delle poltrone

Il ragno Pd si è già pappato i Cinque stelle in un anno di governo

Pietro De Leo

C’era una volta un ragno. E c’era una mosca intrappolata nella sua tela. Questo è un canovaccio tipico di Esopo, dal finale comodamente prevedibile. E siccome le favole sono metafora della vita reale, facciamo copia e incolla sulla politica italiana e troviamo nella parte del ragno il Pd, e in quella della mosca il Movimento 5 Stelle. Che si avvia a essere fagocitato dalla vecchia scuola post comunista. Le parole pronunciate da Alessandro Di Battista l’altra sera a Piazza Pulita, che ha paragonato l’evoluzione della creatura grillina all’Udeur di Mastella, mettono l’accento innanzitutto su una fosca prospettiva di consenso, ma anche sulla nemesi rovinosa per quel (non) partito che aveva tra i suoi dogmi il rifiuto delle alleanze. Ora, questo principio è stato rotto ai tempi del governo con la Lega, ma l’abbraccio col Pd ne ha, di fatto, sancito la messa in liquidazione. Il voto degli utenti di Rousseau, ad agosto, ha sancito la possibilità di stringere intese a livello locale. E la prassi politica vede Beppe Grillo prima (che anni fa tentò di iscriversi al Pd) e Di Maio poi a lavoro affinché ciò si stabilizzi anche a livello nazionale. Che significherebbe per il Movimento, dopo l’orgoglio «post ideologico», un harakiri da titolo di commedia impegnata anni ’70: «Moriremo (post) comunisti».

Il racconto del primo anno di governo Conte 2, infatti, depone in favore di questa tesi e per capirlo basta mettere in fila un po’ di elementi. Partendo da quello più semplice, le «poltrone». Il Movimento ha perduto, in favore non del Pd ma di Leu, comunque di derivazione post diessina, il dicastero della Sanità, dove prima sedeva Giulia Grillo. E ha ceduto un’altra casella importante per la sua «narrazione», ossia il Sud, passato da Barbara Lezzi al dem Giuseppe Provenzano. Altro colpo accusato, poi, è quello su scuola-università. Dal pirotecnico Fioramonti, uscito dai pentastellati dopo le dimissioni da Viale Trastevere, hanno proceduto allo spacchettamento: Lucia Azzolina sì ha tenuto la scuola, come è dolorosamente noto, ma a Gaetano Manfredi, Pd, è stata assegnata l’Università. E anche nei sottosegretariati di peso si segnala il passaggio della delega all’editoria dal pentastellato Crimi al piddino Martella.

  

Quanto ai temi politici, va notato che, su una grande spinta di Nicola Zingaretti, il governo marcia verso lo smontaggio dei decreti Sicurezza, che anche il Movimento contribuì ad approvare ai tempi del governo con la Lega. Anzi, allora era chiaro che la maggioranza interna ai pentastellati, al di là di qualche mal di pancia dell’ala sinistra, appoggiasse quell’impianto normativo, proprio in virtù della proiezione totale sulla «pancia» degli italiani. E poi ci sono i punti qualificanti che avevano segnato l’esperienza di governo dal Movimento. Senza dubbio, il reddito di cittadinanza ha dimostrato di essere un ingranaggio che funziona male, così come il suo perno, quei navigator mai entrati a sistema con i centri per l’impiego. Una sua modifica appare oramai certa, e non potrà che riguardare anche l’Anpal, fiore all’occhiello della (fu) propaganda grillina con tanto di prof fatto giungere dagli Stati Uniti, Mimmo Parisi, da cui ci si aspettavano grandi cose e invece è rimasto anche lui aggrovigliato in questa avventura paradossale.

E poi c’è un «fattore M» che potrebbe segnare il punto di non ritorno, ovvero il Mes. La refrattarietà dei pentastellati all’apertura di questa linea di credito è l’ultimo refolo di un antieuropeismo ormai quasi estinto (lo prova l’appoggio alla Commissione von der Lyen, guarda caso anche lì assieme al Pse di cui fa parte il Pd). E il superamento di questo ultimo blocco su pressione del Pd, che al contrario fortissimamente lo vuole, costituirebbe veramente l’ultimo passo. Anzi, il battito d’ali finale della mosca ghermita dal ragno.