guerra sui fondi ue

Un calcio all'olandese. Ecco l'arma micidiale di Conte contro Rutte

Franco Bechis

Sempre che alla fine un Recovery Fund esista l’Italia si è vista evaporare una cifra che oscilla fra i 20 e i 24 miliardi di euro dal capitolo che le stava più a cuore, quello dei fondi perduti, degli aiuti gratis. Nella proposta della commissione europea infatti ammontavano a 500 miliardi e Roma si attendeva da quella divisione 80 miliardi di euro. Nella tarda serata di ieri è arrivata sul tavolo dei leader in stallo la proposta finlandese che sintetizzava le richieste dei paesi frugali per dare il via libera: taglio di 50 miliardi del fondo complessivo, portandolo da 750 a 700 miliardi. E divisione della somma in 350 miliardi di aiuti a fondo perduto e 350 di prestiti. In questo modo l'Italia perderebbe 24 miliardi di aiuti gratuiti. Durante la cena dei leader si è ipotizzata un’altra mediazione meno penalizzante, con 375 miliardi di fondi gratuiti. Per l’Italia un danno un po’ inferiore: 20 miliardi. 

 

  

Se questo gruzzolo dovesse andare in fumo o se addirittura tutto il Recovery Fund saltasse, la responsabilità sarebbe chiara: tutta del premier olandese Mark Rutte, che ha fatto il diavolo a quattro in questi giorni guidando i paesi frugali soprattutto contro l'Italia. Comprensibile che ieri al premier italiano Giuseppe Conte girassero a mille: sarebbero girate anche a noi al suo posto. Conte ha anche puntato il suo ditino contro Rutte durante la discussione: “avrai sulla coscienza la responsabilità di avere fatto saltare il mercato unico”. Ma l'olandesone della minaccia “morale” se ne è altamente infischiato, e non a torto: figurati se l'area dell'euro può andare in crisi solo perché l'Italia riceve gratis 20 miliardi di euro in meno. Eppure Conte una pistola assai meno a salve l'avrebbe con sé. Da puntare non tanto alla coscienza, ma alle tasche di Rutte. 

 

Come è noto da anni grazie a una legislazione compiacente di Bruxelles e di Roma molti gruppi italiani importanti hanno trasferito le loro holding di partecipazioni nei Paesi Bassi dove possono godere di importanti vantaggi fiscali e anche legali. Secondo un recente studio francese, grazie ai paradisi fiscali interni all'area dell'euro il fisco italiano si è visto portare via almeno 6,5 miliardi di euro di introiti, e di questi circa la metà sono finiti nelle casse statali di Rutte. Sono centinaia le società italiane che hanno stabilito la loro sede in Olanda, e a Rutte bisognerebbe spiegare che con una leggina ben fatta le potremmo fare tornare a casa, togliendo dalle sue casse quei soldi che sono assai più di quel che gli potrebbe costare il Recovery Fund. Certo, ci vorrebbe tempo e qualche discussione con la commissione europea. Ma come antipasto un metodo rapidissimo ci sarebbe. Con uno schiocco di dita del ministro dell'Economia si potrebbe ordinare alle società controllate di smobilitare la loro presenza in Olanda. Il gruppo Enel ne ha sei consolidate nel suo bilancio, quello Saipem dieci, il gruppo Eni ne ha addirittura 57, quasi tutte sotto la holding estera Eni International BV. Questa ultima società nel solo 2019 ha distribuito alla controllante Eni prima 5,030 miliardi di dollari a valere sulle proprie riserve di utili e poi a metà dicembre 1,75 miliardi di dollari dalla stessa provvista poi utilizzati da Eni per sottoscrivere un aumento di capitale sociale della stessa holding internazionale.

Non stiamo parlando di spiccioli: sul piano teorico l'Olanda tassa al 15% gli utili distribuiti alla controllante delle holding olandesi, e in questo caso la cifra che potrebbe essere finita nelle casse del governo Rutte sarebbe pari a un miliardo di dollari. Se già si chiedesse a questi colossi pubblici di trasferire altrove la propria sede (perfino in un altro paese a fiscalità di favore come il Lussemburgo, l'Irlanda o Malta), di sicuro gli olandesi farebbero meno i galletti pronti ad insegnare a tutti come vivere. Facciamola intravedere allora quest'arma affatto spuntata.

Se la beffa del supertaglio dei fondi forse è ancora evitabile, bisognerà però non fare troppo gli offesi per la richiesta di qualche garanzia sull'uso che l'Italia farà di quei soldi. Sono doni, e mettiamoci nei panni chi ce li darà. Anche a me è capitato come tanti italiani di fare donazioni ad esempio per i poveri terremotati del centro Italia in quel terribile fine agosto del 2016. Ero furioso però quando ho visto l'utilizzo per altro assai tardivo di quei soldi, finiti a tutti meno che ai terremotati. Stessa furia hanno avuto i tedeschi che avevano donato fondi per ricostruire l'ospedale di Amatrice e a un certo punto pieni di rabbia hanno iniziato a reclamarli indietro. Ecco, i governi italiani di questi ultimi anni hanno fatto strame della generosità raccolta e se in questo caso i donatori vogliono impegni precisi e controlli su come vengono spesi quei doni, hanno tutte le ragioni dalla loro. Sui prestiti assai meno: i controlli vangano solo se e quando non dovessimo onorare le rate di rimborso.