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Conte si arrende, inizia la nuova fase

Gli aiuti del governo non arrivano e il premier riapre tutto

Franco Bechis
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Un lapsus proprio all'inizio dell'annuncio: “Da lunedì via alle autocertificazioni!”. A Giuseppe Conte è scappato, ma nel testo che leggeva era scritto proprio così tanto che è stato pubblicato in questo modo sul sito della presidenza del Consiglio dei ministri. Fosse stato così, “via alle autocertificazioni”, saremmo tornati indietro all'8 marzo quando il governo ha iniziato a passi rapidi a toglierci ogni libertà costituzionale, perché questa era la sola medicina a disposizione contro il virus nonostante le decine di scienziati consulenti. La verità è che da domani gran parte di quelle libertà vengono restituite agli italiani, quindi “via le autocertificazioni”: potete buttarle nel cestino della spazzatura. Torniamo sia pure in due rapide tappe un paese di uomini liberi. Il premier nel giro di pochissime ore si è arreso alla realtà, scaricando comitati tecnici scientifici che lo avrebbero frenato ancora a lungo, non avendo altre soluzioni dopo tanto tempo se non la più facile e immediata: il lockdown, la chiusura in gabbia degli italiani e di ogni attività del paese. Una svolta evidente rispetto anche a tutta la comunicazione del presidente del Consiglio in queste settimane, avvenuta proprio nelle ultime ore durante il confronto serrato con le Regioni e gli enti locali. Conte ha ceduto su ogni richiesta arrivata, a un patto: che ora la responsabilità ricada sugli enti locali che lo hanno convinto o costretto a un passo che il comitato tecnico scientifico gli chiedeva con ostinazione di non fare. Perché questa svolta? La ragione è molto semplice: il presidente del Consiglio ha finalmente fatto un bagno di realismo, e capito anche come per mille motivi la cura economica che il governo sperava di accompagnare alle chiusure, in parte è fallita e comunque è assolutamente insufficiente. Quasi un terzo delle misure del decreto cura Italia da 25 miliardi varato il 17 marzo scorso non è ancora andato a segno. Appena il 3 per cento del decreto liquidità da 400 miliardi di euro varato ai primi di aprile è diventato una pratica di finanziamento alle imprese: a ieri sera le richieste di finanziamento avviate ammontavano a 11 miliardi di euro, e non è manco noto quanto di questa cifra sia stato effettivamente erogato. Praticamente nulla. Il decreto rilancio da 55 miliardi di euro già illustrato in conferenza stampa giorni fa è ancora un fantasma, e forse solo stasera finalmente approderà alla Gazzetta Ufficiale per la pubblicazione. Ma quei soldi sono ancora da trovare, perché essendo in deficit non ci sono: bisogna fare aste di titoli di Stato straordinarie (qualcuna è stata indetta, ma per cifre molto inferiori), o contare su prestiti dell'Unione europea di cui ad oggi non si vede nemmeno l'ombra. Al di là del fatto che la gente non mangia annunci, ma ha bisogno davvero di quei soldi in tasca che non possono arrivare con mesi di ritardo, la gran parte degli interventi previsti (quasi l'80%) sono di pura assistenza: cercano di lenire le ferite, ma non aiutano a riprendere il ciclo economico. Se la vita non fosse tornata alla normalità, ogni due mesi il governo avrebbe dovuto inventarsi altri 55 miliardi di euro comunque insufficienti alla bisogna ed è stato evidente al presidente del Consiglio che quei soldi non avrebbe mai potuto inventarseli. Per questo si apre tutto, perché è la sola speranza di non fare fallire l'Italia. Per questo Conte ha ceduto su tutta la linea: i 4 metri di distanza, i plexiglass, le protezioni eccessive e ha buttato al macero i documenti del Cts e dell'Inail perché con quelle regole non si sarebbe potuto riaprire nulla con serietà. Poco importa alla fine il perché e il per come il premier si sia convinto a fare un passo che fino a pochi giorni fa escludeva apertamente. Ma ha fatto la cosa giusta, perché altre soluzioni non ci sono davvero per tenere davvero in vita questo paese. Se qua e là i focolai del virus dovessero riprendere, si potranno chiudere piccoli comuni o limitate aree, ma non è detto che debba accadere. Proviamo a riprendere a vivere anche con le cautele necessarie, ma la prima cosa che dobbiamo sconfiggere è quella paura che ci portiamo dentro e che in gran parte ci è stata propinata per lunghe settimane. Siccome dovevamo mangiare tutti anche in questi mesi ai supermercati siamo andati spesso, ed è esperienza comune il fatto che fra i banchi non ci potesse essere quel distanziamento prescritto. Ma non sono esplosi contagi per quegli incontri nemmeno nei momenti peggiori. Nella maggiore parte delle regioni italiane, nel Lazio come nel centro Italia non accade di incontrare il virus ad ogni isolato che si percorre. Quella paura è molto umana, ma si può e si deve superare. Si potrà andare a mangiare una pizza o una pasta al ristorante con lo stesso identico rischio che abbiamo corso nei supermercati, e così si potrà andare ad acquistare una maglietta e perfino dal 15 giugno in poi tornare a vedere un film al cinema o uno spettacolo a teatro e poi questa estate andare qualche giorno al mare, al lago, in campagna o in montagna per respirare la bellezza della vita come l'abbiamo conosciuta e ormai quasi dimenticata. Per ripartire serviamo anche e soprattutto tutti noi. Non manchiamo all'appuntamento.

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