Enrico Letta, Prodi, D’Alema e Bersani La carica dei rottamati contro Matteo
Dopo aver annunciato le dimissioni da parlamentare - «ma non dalla politica» - Enrico Letta s’è come liberato. A settembre l’ex premier andrà a insegnare a Parigi, nel frattempo però usa gli ultimi mesi da deputato per togliersi più d’un sassolino dalla scarpa. Il bersaglio dei suoi strali? Matteo Renzi, naturalmente. Dall’ormai famoso «Enrico stai sereno», prodromo della defenestrazione da Palazzo Chigi, è passato oltre un anno. Oltre quattrocento giorni che Enrico Letta ha passato più o meno in silenzio. Per poi ritrovare la favella e, quasi libero da ruoli istituzionai, attaccare Renzi. È partito in sordina Letta, dicendo di «odiare House of Cards», la serie tv americana che rappresenta la politica come un dedalo intricato di «potere e intrighi». A chi gli fa notare che è il telefilm preferito dall’attuale premier, Enrico Letta risponde stupito: «Davvero? Non lo sapevo...». Difficile crederlo: Renzi cita House of Cards praticamente un giorno sì e l’altro pure e Letta non è noto per essere particolarmente distratto. Anzi. Ma è su Italicum e riforme costituzionali che l’ex premier dà il meglio di sé nelle critiche a Renzi. «Esprimere dubbi sull’opportunità di approvare riforme elettorali e costituzionali a maggioranza risicata, con la contrarietà di tutte le opposizioni, esterne e addirittura anche interne è, a mio avviso, una semplice questione di buon senso. A maggior ragione visto la brutta fine che hanno fatto le riforme costituzionali del 2001 e 2005 e la legge elettorale poi denominata Porcellum», scrive su Facebook. I renziani reagiscono piccati. Roberto Giachetti entra a gamba tesa: «Letta è rimasto appeso alla campanella riconsegnata. Il suo rancore si nota, ma è anche comprensibile». Davide Faraone è, se possibile, ancora più duro quando dice che «Letta non è più premier perché non funzionava». Per fortuna ci pensa il presidente del Pd Matteo Orfini a cercare di smorzare le polemiche dicendo che «non avere Rosy Bindi ed Enrico Letta in Parlamento sarebbe una perdita». A proposito di Orfini, è proprio vero che se vuoi far politica devi prepararti all’irriconoscenza. Massimo D’Alema deve saperlo bene: Orfini l’ha fatto nascere, l’ha svezzato, l’ha plasmato. Prima di prendersi un bel calcio nel sedere. Il motivo? Anche il Lìder Massimo fa parte del novero degli ex premier che attaccano Renzi e il renzismo. Celebri i suoi strali. «Il Pd sia democratico non solo nel nome»; «Renzi faccia seguire i fatti agli annunci». E detto da D’Alema suona come una scomunica. E Romano Prodi? Anche il Professore è molto critico con Renzi. L’agguato dei 101 franchi tiratori che gli sbarro la strada per il Quirinale nel 2013 non l’ha mai mandato giù. E la lingua batte dove il dente duole: «Non furono 101, ma 120. Non c’erano solo i dalemiani, molte aree hanno votato contro. Io ne avevo calcolati massimo 70, e invece...». Sulla politica Prodi spiega: «Il mio governo, se non fosse caduto, avrebbe cambiato il Paese. Invece abbiamo consegnato l’Italia al berlusconismo». Non mancano le critiche a Renzi: sul lavoro «serve l’unità sindacale per avere progressi»; quanto al Pd, «il Partito della Nazione è l’antitsi dell’Ulivo. L’Ulivo è morto, è fallito l’obiettivo di creare un sistema dell’alternanza con la nascita di un riformismo che unisse i riformismo del dopoguerra. L’idea di un Partito della Nazione non è l’idea di alcun Paese europeo. Il PdN è il contrario di un progetto di alternanza e con il progetto di Ulivo che avevo delineato all’inizio della mia breve attività politica». A lanciare critiche a Renzi è infine un ex premier mancato, Pier Luigi Bersani, oggi fiero oppositore interno del segretario Dem. «La mia idea di democrazia è partecipazione, oggi mi sembra un po’ appannata», tuona l’ex numero uno del Nazareno che cita Papa Francesco ed esorta i cattolici: «Stiano bene in campo sui temi della democrazia». C’era una volta il Partito democratico, squassato tra mille faide e con la rivolta degli ex premier rottamati. Anche se una piccola vittoria Bersani la ottiene: Renzi apre alla sua partecipazione alla Festa dell’Unità.Per il premier, Bersani «ha ragione, è stato sbagliato non chiamarlo. Hanno invitato i ministri e non gli ex sottosegretari».