Cofferati dice addio al Pd
Nel Pd nessuno ci crede davvero. Difficile pensare che questa volta esca di scena e si ritiri a vita privata. Troppo ambizioso, troppo visceralmente contrario alla linea renziana del partito per mollare. E poi dentro di sé non ha mai abbandonato il sogno di una sinistra allargata alle frange estreme che includa anche Sel. Ecco perché chi lo conosce bene, appena saputa la notizia dell’addio al Pd, ha subito commentato: vedrete che formerà una Lista civica con Sel. «Non posso più restare in questo partito. In un partito che non dice nulla su quanto accaduto in Liguria. È una decisione difficile e dolorosa perché sono uno dei 45 fondatori del Pd. Ma esco ugualmente. E non lo faccio per fondare un altro partito: lo faccio perché così non posso restare». Nel foyer del Teatro dell’Opera Carlo Felice Cofferati, ha il tono pacato quando dice che a spingerlo all’addio, è stato «l’incredibile silenzio» del vertice nazionale del Pd di fronte alle sue denunce di irregolarità nelle primarie per la scelta del candidato ala futura presidenza della Liguria. Il suo è un attacco a testa bassa al partito. Parla di «comportamenti difformi da quelli che dovrebbero riguardare le primarie». Dice che «sono 13 i seggi incriminati con due fatti gravi: il modo anomalo con cui hanno partecipato al voto alcuni stranieri e l'inquinamento attraverso il voto sollecitato e ottenuto del centrodestra, che si è mobilitato per votare alle primarie del centrosinistra». Poi annuncia che porterà le carte in Procura. L’uscita di Sergio Cofferati dal Pd non ha colto molto di sorpresa i membri di più lungo corso del partito. È l’ultimo atto (ma solo in ordine temporale, perché la partita di Cofferati non finisce qui) di un rapporto bellicoso tra l’ex segretario generale della Cgil, poi sindaco di Bologna e infine europarlamentare e il partito che più volte ha tentato di scalare e comunque di condizionare nel percorso di trasformazione. E in un certo senso lo ha fatto. Perchè il suo «No» all’unità sindacale quando era segretario generale della Cgil, caldeggiata dalla Cisl di D’Antoni e che aveva avuto il via libera di D’Alema, ha dato una battuta d’arresto alla nascita di un partito di sinistra riformista, ha frenato la riforma del sindacato in senso partecipativo sul modello europeo e ha ostacolato l’affermazione in Italia di un sistema economico meno statalista. Il No di Cofferati era il No a queste riforme giacché il suo obiettivo come leader della Cgil era di riuscire a imporre il primato del sindacato sul partito e fare dell’allora Ds una riedizione del vecchio Pci tenendo dentro anche la Fiom. Sottoscrivendo l’unità sindacale la Cgil avrebbe perso un milione di iscritti, quelli della Fiom. Ma soprattutto il potere condizionante della Cgil sulla sinistra si sarebbe indebolito. E questo Cofferati non lo voleva. È come leader del maggiore sindacato italiano che inizia la sua parabola politica. Mostra i muscoli portando in piazza, nella manifestazione del Circo Massimo, due milioni di persone contro il Patto per l’Italia di Berlusconi. Le sue interviste dominano sui giornali principali e hanno un taglio sempre più politico. Soprannominato «il cinese» per il taglio degli occhi, diventa il principale oppositore di Berlusconi e del centrodestra. È quello il periodo in cui sente che può fare il grande salto in politica. Moretti nello storico attacco ai vertici dei Ds («Con questi non vinciamo») lo candida a leader della sinistra. Forma una corrente dei Ds che nel 2001 compete con Fassino ma i risultati congressuali sono scarsi. Ora lascia il Pd ma anche alla scadenza dalla guida della Cgil disse che sarebbe tornato in fabbrica. In Pirelli si fa vedere per un paio di settimane con la scorta poi si ributta sulla scena politica. Si candida a sindaco di Bologna e diventa il vendicatore dei Ds che erano stati battuti da Guazzaloca. A Bologna si guadagna un altro soprannome. Diventa lo «sceriffo» quello del pugno duro contro i Rom e i centri sociali. A un certo punto sembra voler uscire di nuovo di scena. Finito il primo mandato potrebbe ricandidarsi ma rinuncia. Sui periodici rosa campeggia la sua foto con una giovane donna genovese. Per lei lascia la moglie; hanno un figlio. Dice di volersi ritirare a vita privata. La favola dell’uomo di potere che molla tutto per amore dura poco. Eccolo candidato alle europee. Nella sua vita non mancano le pagine buie come quando criticò Marco Biagi definendo «libro limaccioso» il lavoro del giuslavorista in tema di riforma del mercato del lavoro. Anni dopo il ripensamento: «È stato uno straordinario lascito». Ora esce di scena, chissà...