«La ’ndrangheta riciclava nel lussuoso Cafè de Paris»

Società che passano di mano in mano, bar e ristoranti che, attraverso una complicata galassia di società create ad hoc, tentano di nasconderne la proprietà reale agli inquirenti. E ancora ex gruisti del porto di Gioia Tauro che diventano imprenditori di successo (prima nel campo dei saloni da parrucchiere nel sud più profondo e marginale, poi dritti fino all’Olimpo della ristorazione di lusso nel cuore della Roma bene), fino al riciclaggio vero e proprio, effettuato in quello che il genio onirico di Fellini disegnò nella Dolce Vita. Nelle motivazioni della sentenza che ha condannato quella che viene considerata la costola romana della Cosca Alvaro di Sinopoli, c’è il romanzo criminale 2.0 del nuovo crimine organizzato: quello che non spara (perché non ne ha più bisogno) e che preferisce entrare a piedi uniti nel ricco (e accogliente) mercato che offre la Capitale. LA FABBRICA DEL RICICLAGGIO La ricostruzione degli inquirenti accettata in primo grado dai giudici romani ha smascherato il vorticoso giro d’affari tenuto insieme da Vincenzo Alvaro: giro che però esclude il Cafè de Paris per il quale il Tribunale ha ipotizzato un reato ancora più grave: nella sostanza, secondo quanto emerso in dibattimento attorno al ritrovo di lusso su via Veneto (che d’estate riesce ad assumere fino a cinquanta lavoranti) giravano gli affari dei clan del malaffare calabrese che usava il bar caro agli artisti per riciclare denaro di provenienza illecita. «Ritiene il collegio che nel caso di specie ricorre un reato diverso e più grave rispetto alla fattispecie in contestazione, dovendosi ritenere che il Villari ha posto in essere una serie di investimenti di somme certamente non provenienti interamente dalla sua attività imprenditoriale di gestore del Cafè de Paris, ma da attività illecite poste in essere da terzi». Nella sostanza, ipotizzano i giudici che hanno inviato gli atti nuovamente in procura in previsione di un nuovo processo, il Cafè de Paris stava in piedi come scontrinificio dei clan del malaffare romano. Un’ipotesi suffragata anche da una serie di testimonianze tra cui quella del professionista Liparota che curava l’ipotesi di cessione del bar ad un imprenditore straniero: vendita che non si concretizzò perché in Calabria, nonostante i conti in rosso del locale, qualcuno aveva detto no: «No guarda – dice Villari al professionista – digli di lasciar perdere perché qui ci sono soldi dietro della ‘ndrangheta, non è il caso che vada avanti, io eventualmente gli restituirò i soldi». L’IMPERO DEGLI ALVARO Perno dell’intera vicenda che vede coinvolti, a vario titolo, alcuni tra i nomi storici della ristorazione romana di lusso (il Cafè de Paris, il California) è Vincenzo Alvaro – figlio di quello che viene considerato dagli inquirenti uno dei pezzi da novanta del clan operativo sul versante occidentale d’Aspromonte ma che ha esteso i propri tentacoli anche sulle sponde del Tevere - che, scrivono i giudici nelle 180 pagine di motivazioni «attenzionato dalle forze dell’ordine, si era trasferito a Roma per gestire diverse attività, mentre alcune delle acquisizioni erano avvenute diversi anni prima. Il teste – scrivono i giudici del collegio riferendosi alla testimonianza del maggiore dei Ros, Carmine Tordiglione – ha precisato inoltre come nel tenore degli atti, spesso era risultato difficile risalire alle singole dazioni di denaro». E così, il figlio del boss (difeso dall’avvocato Domenico Cartolano) sbarca a Roma nel 2001 per scontare a Roma il periodo di sorveglianza speciale scaturito da un processo che lo vedrà assolto in appello: per trasferirsi a Roma - «per farsi una nuova vita» dichiarerà l’imputato in aula - Alvaro si fa assumere come aiuto cuoco dalla società «s4» che gestisce il California e che vede tra i soci diversi personaggi (tra cui Damiano Villari, l’uomo accusato di avere comprato il Cafè de Paris sull’unghia) che erano stati a loro volta dipendenti di una società di Alvaro, in un vortice impazzito di società (e soci) difficili da individuare vista la velocità con la quale cambiano composizione sociale. Ed è da quel primo passo come cuoco che Vincenzo Alvaro, secondo i giudici che lo hanno condannato in primo grado a sette anni di reclusione, costruirà il suo impero. Un impero enorme che finirà con l’inglobare la Time Out srl (costituita nel 2006 da Roberto De Lio che poi la cederà, appena pochi mesi dopo, a Grazia Palamara, moglie di Alvaro che rileverà l’attività – che intanto ha inglobato anche il California - «per un prezzo assolutamente incongruo, rispetto al valore della società». E poi la «Tortuga», società che gestisce il «Gran Caffè Cellini» in piazza Capecelatro, il ristorante «La Piazzetta» in via Tenuta di Casalotto, formalmente intestato al fratello di Alvaro ma «che l’attività tecnica aveva dato dimostrazione che reale gestore del ristorante era Vincenzo Alvaro». Di più, sempre seguendo il racconto dell’ufficiale dei Ros, il bar «Clementi», in via Gallia, gestito attraverso la «Margife» a cui si aggiunge un ulteriore bar su viale Giulio Cesare, gestito dalla «Cami» e «L’antico caffè Chigi» proprio in faccia ai palazzi del potere. Tutti tasselli, scrivono i giudici, che vanno a costituire le fondamenta dell’impero che Alvaro riesce a tirare su nella Capitale attraverso una serie di prestanome e teste di legno compiacenti. LE MANI DELLA ‘NDRANGHETA SULLA CAPITALE Secondo quanto riscontrato dai giudici del collegio, dietro Vincenzo Alvaro c’è la potentissima cosca omonima che ha il suo feudo di competenza a Sinopoli, nel Reggino. Questi i motivi che hanno portato all’aggravante che ha sensibilmente aumentato le pene per gli imputati condannati. Una circostanza che il tribunale spiega in questi termini: «Dagli elementi ritiene il collegio provata la sussistenza della contestata aggravante della agevolazione del sodalizio mafioso del clan Alvaro, dovendosi avere riguardo alla stretta connessione dei fatti per cui si procede con il contesto e l’ambiente di provenienza di Vincenzo Alvaro, rapporto che dimostra una serie di cointeressenze, non altrimenti giustificabili se non come ricostruite sulla base degli esiti della complessa istruttoria, individuando in Vincenzo Alvaro il soggetto, che nell’interesse del sodalizio criminale clan Alvaro ha posto in essere una serie di acquisizioni di locali commerciali a Roma, allo scopo, appunto, di assicurare all’associazione una continuità imprenditoriale al di fuori della provincia calabrese e lontano dai rischi di misure di prevenzione reale (i sequestri effettuati continuamente dalle forze dell’ordine, ndr) in quanto l’organizzazione era stata già colpita da procedimenti penali ai sodali e da misure di prevenzione, che con i provvedimenti ablatori minano in radice il potere dell’associazione».