La sindrome di Fantozzi perseguitato dai tedeschi
Tutto è cominciato ai tempi di Giulio Cesare, ma forse ancora prima: le tribù dei germani attraversavano di notte, in gran segreto, il fiume Reno per razziare i ricchi territori occupati dai coloni romani. Poi, rapidamente, i guerrieri riattraversavano il fiume con il bottino, facendo boccacce alle truppe romane che, pesantemente armate, non potevano inseguirli. Siccome il Divo Giulio non era uno che sopportava gli sberleffi senza reagire, ordinò, nel 55 a. C., la costruzione di un ponte. Quante risate devono essersi fatti i feroci guerrieri germani nel vedere giungere, sulla riva opposta del fiume, i genieri romani. Ma ride bene chi ride ultimo. Il Reno è largo e profondo ed era, allora, considerato invalicabile a chi non era pratico di quelle zone. I romani, lavorando giorno e notte al ritmo dei tamburi, costruirono un’autostrada su quel fiume, in meno di dieci giorni; un ponte lungo mezzo chilometro e largo quattro metri che una legione poteva attraversare a passo di battaglia. Narra la leggenda che al solo vedere la costruzione dell’opera i germani decisero di non rompere più le scatole ai romani. Per il momento. Ecco, nacque forse così l’intifada tra tedeschi e italiani, che è proseguita nei millenni, creando un inestricabile rapporto di amore-odio che è giunto fino ai giorni nostri. E che è sintetizzato in una celebre scena del film «Fantozzi», quella del campeggio. «Piantiamo la tenda ragioniere?», chiede Filini a Fantozzi giungendo, a notte inoltrata, al camping. «La tenda? Pronti!» risponde il ragionier Pierugo, rovesciando fragorosamente al suolo un sacco di pali e picchetti. Il campeggio (italianissimo), occupato tutto da tedeschi, si ribella: «Basta! - grida uno con l’inconfondibile accento germanico - Italiani sempre rumore, sempre cantare, chitarra e mandolino!». E un altro: «Silenzio, qui dormire. Tedeschi noi!» Il seguito lo conoscono tutti: Filini dice a Fantozzi di farla finita con il mandolino (che ovviamente non ha mai suonato) e poi, mentre montano la tenda, gli colpisce la mano con una terribile martellata. Fantozzi fuggirà per i campi, a molti chilometri dal camping, per urlare in pace. È la vendetta del ponte sul Reno e il suggello ad un rapporto reciprocamente incomprensibile, ma inestricabile. Al di là di eventi e rivalità belliche, da nemici ad amici tra la prima e la seconda Guerra mondiale, i popoli germanofoni sono sempre rimasti conquistati dalla grandiosità dell’indolenza italica: un simbolo di questo è il settecentesco ritratto di Goethe nella campagna Romana, di Tischbein. Il padre della lingua tedesca appare disteso su un rudere, con lo sguardo assorto e perso alla vista di antichi acquedotti e monumenti. Indossa un ampio, romantico camicione bianco e una specie di sombrero che non avranno mancato di far sbellicare dalle risate i pecorari dell’agro romano: «Anvedi lu crucco co’ lu cappellone», avranno detto. Il dipinto originale è custodito a Francoforte, comunque a Roma una bella riproduzione giganteggia all’interno del Goethe-Institut e, ancora oggi, il sombrero e il camicione non mancano di strappare qualche risolino agli italiani di passaggio. Il fatto è che c’è amore (e quanto!), ma non comunicazione. Così, sin dai primissimi anni del Dopoguerra frotte di tedeschi sono arrivati sulle rive dolci, assolate e sabbiose del mare Adriatico, attratti da un clima e da una ospitalità sconosciute. All’inizio le famiglie di Fritz e Gertrude portavano con loro dei generi alimentari. «Mangiare italiano troppo pesante», dicevano. Poi le amorevoli cure di intere generazioni di ristoratori emiliani li hanno convinti che si può sopravvivere anche nutrendosi di linguine allo scoglio e che wurstel e crauti potevano rimanere a Monaco. E così è nata anche una sudditanza psicologica, sfociata in quell’eterno Italia-Germania 4 a 3, che si ripete in continuazione, perché sì, i tedeschi considerano gli italiani pasticcioni, rumorosi, «chitarra e mandolino» e anche un po’ mafiosi. Tanto che la rivista Spiegel non ha mai «ritrattato» quell’orribile copertina sull’Italia con un gran pistolone su un piatto di spaghetti sconditi. Però, e questo i tedeschi lo sanno bene, la «partita del secolo» gli italiani non la perdono. Mai. Italia-Germania 4 a 3.