Celle senza civiltà. L’Italia è ancora ferma al Medioevo
Di questi coni d'ombra se ne occupa raramente la politica o il giornalismo, quello d'inchiesta, che in qualche meravigliosa eccezione ancora esiste. È il caso di Arianna Giunti, autrice di un e-book dal titolo «La cella liscia. Storia di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane» (Informant). «La situazione del sistema carcerario in Italia è un argomento del quale si tende a parlare ad intermittenza – racconta l'autrice – solamente quando qualche fatto di cronaca eclatante rimbomba sui media e scatena l'indignazione pubblica. In realtà nei nostri penitenziari gli abusi di potere avvengono ogni giorno, nel silenzio e nell'indifferenza generali». Una colpa essere detenuti, una colpa che si sconta anche con il pregiudizio «anche a costo di calpestare i propri diritti umani, in totale spregio dell'articolo 27 della Costituzione che conferisce al carcere una funzione rieducativa». In questo libro scritto con accuratezza ed una capacità narrativa molto forte, l'autrice ha scelto di puntare i riflettori «su alcuni degli aspetti meno noti e più dolorosi del carcere: gli abusi di potere in cella, la malasanità in carcere e le mancate cure per i detenuti, l'ergastolo ostativo con i cosiddetti “uomini ombra” e infine il difficilissimo reinserimento sociale degli ex detenuti». Un Paese che sembra quindi fermo al Medioevo, che costringe alla continua illegalità i cittadini che sbagliano, perché dal carcere attuale non si può che uscire peggio di come si è entrati, anche per colpa dell'abbrutimento morale e culturale di un ambiente che non permette un codice comportamentale diverso dalla violenza. «C’è una tecnica di tortura dal sapore medievale che ancora oggi resiste in moltissime prigioni italiane: i detenuti che disattendono gli ordini o hanno crisi isteriche, vengono confinati per un'intera giornata o per settimane intere – nudi e al buio – in una cella di isolamento. Lì vengono picchiati, umiliati, costretti a dormire sui propri escrementi – denuncia Arianna Giunti – in gergo la chiamano «la cella liscia», perché non ci sono appigli, mobili o brande. Una vera e propria stanza di tortura, di cui appresi l'esistenza dal padre di un detenuto. Per la ferocia del metodo io stessa non volevo crederci che in Italia ci fosse una realtà del genere, poi scavando sono venute fuori tante storie, che emergono con molta difficoltà perché i detenuti hanno paura di parlare. Un caso documentato che ha portato alla condanna (poi prescritta di quattro agenti della Penitenziaria di Asti), dove tra i picchiatori c’era anche un detenuto che con il suo silenzio era stato promosso al grado di carnefice». Una pagina strappata dalle cronache ufficiali quella che racconta questo libro, che Arianna Giunti ha avuto il merito di rincollare alla cronaca e alla vita.