Quando Sturzo si appellò agli «uomini liberi e forti»

Portava la data del 18 gennaio 1919 il celebre appello redatto da Luigi Sturzo, ma firmato da tutta la Commissione Provvisoria del nascente Partito popolare italiano del quale indicava le linee programmatiche. Era il frutto, quel documento, di riunioni preparatorie che si erano svolte nei due mesi precedenti. L'inizio è celebre: «A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà». L'ora era «grave» davvero perché, a guerra conclusa, stava iniziando i suoi lavori a Parigi quella Conferenza della pace che avrebbe dovuto ridisegnare la carta geopolitica dell'Europa e allontanare il pericolo di nuovi conflitti. Sturzo e i suoi amici si erano resi conto che ormai i tempi della lontananza dei cattolici dalla politica stabilita da Pio IX con il Non expedit erano ormai tramontati. C'era stato, già nel 1912, il cosiddetto Patto Gentiloni che, nelle elezioni dell'anno successivo, aveva reso i cattolici protagonisti in qualche misura del confronto politico. C'era stata, nel marzo 1915, la riorganizzazione dell'Azione Cattolica, la cui presidenza era stata affidata al conte Giuseppe Della Torre. Poi, la guerra aveva costretto i cattolici italiani ad assumere posizioni politiche precise. A conflitto chiuso, Sturzo aveva finalmente ottenuto dal cardinale Pietro Gasparri il consenso alla fondazione di un partito politico. Ed ecco che il 18 gennaio 1919 veniva diffuso quell'appello che presentava i punti programmatici del Partito popolare italiano. La nuova formazione politica si presentava con un volto aconfessionale e laico. Si dichiarava indipendente dal Vaticano. Uno dei punti del programma diceva: «Libertà e indipendenza della Chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale. Libertà e rispetto della coscienza cristiana considerata come fondamento e presidio della vita della nazione, delle libertà popolari e delle ascendenti conquiste della civiltà nel mondo». Poi, sempre nel programma, si parlava di rappresentanza proporzionale, di legislazione sociale, di autonomie locali, di riforme del sistema tributario e via dicendo secondo uno schema che recuperava l'idea dello Stato organico fondato sulla famiglia, sulla professione, sul governo locale. Vi era, insomma, condensata una visione della politica e dello Stato, democratica e cristiana, ben lontana da tentazioni teocratiche o da suggestioni di restaurazione del potere temporale della Chiesa. Era qualcosa di ben diverso dal tentativo che, anni prima, Romolo Murri aveva fatto per organizzare politicamente i cattolici ma che era entrato in collisione con il Vaticano anche per le sue posizioni moderniste. Era, la fondazione del Partito popolare, un fatto di importanza storica capitale per l'Italia perché, di fatto, segnava la fine degli steccati risorgimentali e implicava l'accettazione della laicità dello Stato. Il Partito popolare prese subito piede, ma già al primo congresso, nel giugno dello stesso anno, emersero, ai fianchi del centro guidato da don Sturzo e da Alcide De Gasperi, una corrente di destra legata al nome del sacerdote milanese Agostino Gemelli e un'ala sinistra capeggiata dal sindacalista «bianco» Guido Miglioli. Le prime prove elettorali gli consentirono di raccogliere oltre il 25% dei voti e di portare in Parlamento un centinaio di deputati: il Ppi, favorito dalla estensione del suffragio universale e dal sistema elettorale proporzionale, era diventato una realtà, un partito organizzato di massa, destinato ad essere un protagonista della vita politico-parlamentare del paese. Al momento dell'avvento del fascismo, dopo la marcia su Roma, nell'ottobre del 1922, alcuni esponenti del partito - da Vincenzo Tangorra a Stefano Cavazzoni a Giovanni Gronchi - entrarono a far parte del primo governo Mussolini contro il parere del suo stesso fondatore, don Sturzo, già allora preoccupato del successo e delle caratteristiche di «illegalismo» del movimento fascista. All'indomani del delitto Matteotti il Partito popolare, passato all'opposizione, prese parte alla secessione aventiniana e fu sciolto, come tutti gli altri movimenti politici, nel novembre del 1926. Don Luigi Sturzo partì per l'esilio, Alcide De Gasperi si ritirò dalla politica. La vita del Ppi, propriamente detto, fu, dunque, molto breve: una manciata di anni. Ma la sua storia non sarebbe affatto finita, come avrebbero dimostrato le vicende del secondo dopoguerra, quando, rientrato Sturzo dall'esilio e tornato alla ribalta De Gasperi e con lui molti esponenti del nucleo fondativo del partito, fece la sua apparizione sulla scena politica la Democrazia cristiana.