Di Pietro senza freni. Ora attacca il Colle

Inaltri tempi, quando faceva il sostituto procuratore della Repubblica, proprio in quel biennio, Di Pietro avrebbe liquidato come una insopportabile interferenza nelle attività della magistratura una proposta come quella da lui annunciata ieri. Infatti lui e i suoi colleghi di allora, a cominciare dal capo della Procura ambrosiana, Francesco Saverio Borrelli, contestarono la commissione d'inchiesta parlamentare sul finanziamento della politica e sulla corruzione appena prospettata dal segretario socialista Bettino Craxi. Che fu accusato di volere svuotare e deviare verso il binario morto o innocuo di una commissione parlamentare le indagini giudiziarie in corso sulla stessa materia. Dalle quali egli era destinato ad essere travolto. Anche sulle «trattative», vere o presunte, fra lo Stato e la mafia di una ventina d'anni fa vi è da tempo un gran lavorìo giudiziario condotto nelle procure di Caltanissetta, Firenze e Palermo. Ma nel capoluogo siciliano, dove peraltro si sono già svolti o sono ancora in corso altri processi sullo stesso filone, le indagini preliminari sono appena state chiuse, pur con il dissenso di un sostituito e la mancata firma del capo della Procura, inviando le comunicazioni di rito alle persone che rischiano ora il rinvio a giudizio. Fra costoro ci sono anche gli ex ministri della Giustizia e dell'Interno, Giovanni Conso e Nicola Mancino, sinora per reticenza o falsa testimonianza. Che cosa potrebbero, a questo punto, accertare le Camere negli otto mesi residui della legislatura, al lordo dei quattro prevedibilmente assorbiti da sospensioni usuali, vacanze e sessione di bilancio, più e meglio dei magistrati siciliani, è francamente difficile immaginare. A meno che Di Pietro, probabilmente interessato a fare parte della commissione d'inchiesta parlamentare, e magari anche a guidarla per le competenze acquisite da magistrato inquirente ai bei tempi, per lui, di «Mani pulite», non ritenga di essere il superman adatto allo scopo. Ma qual è davvero lo scopo? Formalmente è quello di stabilire se ci furono davvero trattative fra lo Stato e la mafia, per iniziativa di chi, a quale fine preciso, se per evitare o limitare le stragi o per salvare qualcuno in particolare, e violando quali e quante leggi. Ma sostanzialmente anche per coinvolgere nelle indagini parlamentari il presidente della Repubblica, che da giorni Di Pietro e una certa stampa fiancheggiatrice dei suoi umori e sospetti stanno accusando di avere aiutato, in particolare, l'ex ministro, ex presidente del Senato ed ex vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Mancino non dico a sottrarsi, ma quasi alle indagini dei magistrati di Palermo coordinati da Antonio Ingroia. Che ha fra l'altro ritenuto, non certamente a caso, di includere nei faldoni dell'inchiesta e depositare le registrazioni dei contatti telefonici avuti da Mancino nei mesi scorsi con il Quirinale e alti magistrati per chiedere, e in parte ottenere, un interessamento alla sua vicenda. Ma ciò non per farla franca, come i critici ed avversari suoi e dei suoi interlocutori sostengono, ma per reclamare ciò che spetta a qualsiasi indagato o imputato: un efficace e onesto coordinamento delle indagini quando a condurle sono più uffici giudiziari. E con valutazioni differenti, se non contrastanti. Il presidente della Repubblica si è mosso, e ha fatto muovere i suoi uffici, con la solita accortezza, in coerenza con interventi da lui effettuati, proprio in materia di coordinamento delle indagini, davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. E alla luce di precise disposizioni legislative elencate ieri, prima ancora che dal suo portavoce Pasquale Cascella, dal giurista ed ex vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Carlo Federico Grosso in un articolo su La Stampa. Che peraltro Di Pietro dovrebbe essere abituato a leggere ed apprezzare, avendo scelto a suo tempo il giornale torinese per i suoi editoriali, o «editti», come altri li definivano, nel tragitto a sorpresa dalla carriera giudiziaria a quella politica. Non mi sembra francamente corretto, e tanto meno accettabile, cercare di aggirare, nei fatti se non nelle intenzioni, con una commissione parlamentare d'inchiesta su lontane vicende del 1992-93 l'articolo 90 della carta costituzionale, che rende il presidente della Repubblica «non responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione». Per i quali occorre però che il Parlamento metta il capo dello Stato sotto accusa «in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». È curioso comunque che Di Pietro sia così duro e scatenato contro l'ascolto dato da Napolitano a Mancino dopo non avere avuto nulla da obbiettare come magistrato contro l'udienza ufficiale concessa dall'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro al presidente dell'Iri Romano Prodi. Che era stato appena interrogato proprio da lui, Di Pietro, per l'inchiesta su Tangentopoli. E ne era uscito quasi traumatizzato. Prima ancora, Di Pietro era assurto alla notorietà come magistrato per essersi dissociato da uno sciopero delle toghe contro l'allora capo dello Stato Francesco Cossiga. Che aveva voluto andare a ringraziarlo, non procurandogli imbarazzo per vere o presunte commistioni di ruoli. Ah, che scherzi tira la cattiva memoria. O la cattiva politica.