I partiti si chiamano fuori e si fanno fuori da soli

Ma i partiti a che cosa servono? Una domanda provocatoria per chi come noi ha sempre creduto, e continua a credere, al primato della politica ma che trova ogni giorno conferma della sua legittimità nei comportamenti di molti dirigenti politici di quasi tutti i partiti. L'ultima conferma della legittimità di questa domanda è stata la richiesta di Bersani e di Casini a Monti di indicare lui i consiglieri della Rai di nomina parlamentare. Ma è così difficile per i nostri amati partiti nominare persone competenti e che abbiamo innanzitutto sensibilità politica adeguata ai ruoli che si vanno ad assumere? E ancora, è così difficile contestare questa sorta di sacralità dei tecnici in ogni ruolo, anche in quelli che richiedono una visione d'insieme che è tipica dell'attività politica come ad esempio i componenti dell'Agcom? Milena Gabanelli, una delle più brave giornaliste di inchiesta, ha scritto un lungo articolo sul Corriere della Sera illustrando la qualità tecnica dei compiti che attendono l'Agcom e non si è accorta che descrivendo i futuri appuntamenti che attendono l'agenzia delle comunicazioni ha evidenziato tutti gli spazi politici delle future decisioni da prendere in quel settore. Insomma c'è un vento tecnocratico che umilia la politica che, a sua volta, non sembra essere in condizioni di contrastare culturalmente quell'egemonia tecnocratica sostenuta proprio da quei poteri forti di cui parlava Mario Monti qualche giorno fa. Sulla scia di questa deriva rischieremo prima o poi di riproporre le Camere delle competenze e delle professionalità, termini più moderni dell'antica definizione delle Camere dei fasci e delle corporazioni. Siamo proprio certi che in questa crescente deriva tecnocratica non ci sia un filo conduttore legato all'esperienza storica del fascismo? Per dirla in maniera ancora più brutale, ma se la politica democratica non difende il proprio ruolo e le proprie responsabilità nel decidere uomini e donne che devono sovraintendere a compiti di servizio pubblico, dalle authority alla Rai, come si pensa di contrastare le varie forme di populismo che invadono le piazze del Paese e lo tsunami antiparlamentare che avanza? La crisi dell'Italia è la grande crisi dei partiti, la loro insignificanza sul terreno di una proposta culturalmente riconoscibile e politicamente praticabile nonché la fuga ingloriosa dalle responsabilità di governo. Sinanche in Grecia il governo del tecnico Lucas Papademos aveva dentro i rappresentanti di tutti i partiti. In Italia invece, abbiamo assistito a una fuga precipitosa confermando, così, una crisi dei partiti che arriva da lontano. È la crisi dei partiti padronali ciascuno con il proprio ridicolo cerchio magico che ha messo in campo in questi anni protagonisti in larga parte inadeguati e senza, peraltro, preoccuparsi della loro formazione. Guardateli in controluce e in nessuno dei partiti potrete riconoscere un profilo culturale certo del tipo di quelli che conoscono tutti i cittadini europei. Siamo stati per 20 anni il Paese dei partiti con nomi senza storia e senza cultura (l'Ulivo, l'Asinello, la Margherita, Forza Italia e via di questo passo) e siamo diventati lo zimbello d'Europa. Se abbiamo oggi recuperato credibilità è perché Monti è il presidente europeo della commissione "Trilateral" ed è stato autorevole consulente della Goldman Sachs e non già perché il nostro sistema istituzionale abbia partorito un esecutivo politicamente di rilievo. Forse il Paese dovrà bere sino in fondo l'amaro calice di un sistema politico modesto e balbettante perché la mediocrità che vi si è insediata non ha la forza morale e culturale di una vera e propria catarsi nell'interesse del Paese e per la sua stessa sopravvivenza.