Le elezioni per il Pd come la mela di Eva

A dispetto delle smentite d'ufficio, con il solito companatico degli insulti, o quasi, dell'altrettanto solito Massimo D'Alema, che ha liquidato come "sciocchezze" le opinioni espresse da quello che è pur sempre il responsabile dell'ufficio, o settore, economico del suo partito, la sinistra è tentata, anzi tentatissima dalle elezioni anticipate. Un po' come Eva, nella Genesi, lo fu dal serpente lasciandosi alla fine convincere con Adamo a mangiare la mela. O, più banalmente, come il Pds-ex Pci di Achille Occhetto a cavallo fra il 1993 e il 1994, quando le vittorie inanellate nelle elezioni amministrative gli fecero perdere la testa ancor più di quanto non avessero già fatto le Procure della Repubblica liquidando i suoi storici avversari. E, con la complicità dell'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, pace all'anima sua, impose al Paese le elezioni anticipate. Che furono però vinte da quel guastafeste di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere c'è ancora, a dispetto di chi lo vorrebbe morto e sepolto, e ne teme la imprevedibilità, per quanto sia politicamente malmesso con quella che Stefano Fassina, l'autore delle "sciocchezze" lamentate da D'Alema, ha definito "l'implosione del Pdl". Al posto del quale però - non si sa mai, sono in molti a pensare a sinistra - potrebbe prima o poi organizzarsi qualcosa di nuovo e di diverso per riacquistare la fiducia o solo l'interesse dei cosiddetti moderati. Che - maledizione - sembrano lì pronti a correre al richiamo, visto che piuttosto di votare dall'altra parte preferiscono disertare le urne. O votare per le cinque stelle di Beppe Grillo, invogliati dalle insolenze che egli riserva anche al Pd. Una risata, si sa, aiuta a stare meglio, anche se le dimensioni di Grillo purtroppo non sono più quelle di un comico. Al quale si paga un biglietto ma non si affida il governo di un Paese, a meno che questo per disperazione non impazzisca. La differenza vera, e decisiva, tra questa primavera del 2012 e l'autunno-inverno del 1993-94 è tuttavia al Quirinale. Dove non regna - sarei tentato di dire - Oscar Luigi Scalfaro, di nuovo pace all'anima sua, ma per nostra fortuna Giorgio Napolitano. Che, oltre a ricordare bene le vicende politiche di una ventina d'anni fa, da lui vissute alla presidenza della Camera, conosce la sinistra come le sue tasche, avendone fatto parte per una vita, e da posizioni moderate di minoranza. Egli sa di quali errori essa sia capace quando ragiona con le viscere e non con la testa. Potrò sbagliare, per carità, ma non vedo Napolitano permeabile alla smanie di ex compagni in processione da lui, in caso di crisi, o dopo una crisi appositamente provocata, per incassare un dividendo elettorale considerato maturo e impedire agli avversari di organizzare una nuova linea difensiva. Lo scioglimento anticipato delle Camere è e resta una esclusiva prerogativa del presidente della Repubblica. Il quale già seppe prevenire e smontare le tentazioni elettorali della sinistra nello scorso autunno preparando il passaggio dall'ultimo ed ormai esausto governo del Cavaliere a quello tecnico di Mario Monti. Che avrà commesso i suoi errori, magari spintovi dallo stesso capo dello Stato, rinunciando per esempio allo strumento del decreto legge per la riforma del mercato del lavoro, costretta a segnare ancora il passo nel percorso parlamentare del disegno di legge ordinario, ma rimane l'unico in grado di fronteggiare una situazione economica interna e internazionale intricata come questa. Napolitano in caso di crisi non avrebbe bisogno di trincerarsi dietro il pretesto del famoso, cosiddetto semestre bianco, l'ultimo del suo mandato, per rifiutare lo scioglimento anticipato delle Camere. Esso, d'altronde, scatterà solo a dicembre. Ma anche quando scatterà, coincidendo nel suo caso anche con la fase terminale della legislatura, non comporterà alcuna riduzione delle sue prerogative dopo la modifica apportata nel 1991 all'articolo 88 della Costituzione: quello appunto che gli conferisce la possibilità di "sciogliere le Camere o anche una sola di esse, sentiti i loro presidenti". No. Egli ha l'esperienza, lo spessore, l'autorevolezza - chiamatela come volete - di motivare a viso aperto alle forze politiche che dovessero cercare di forzargli la mano il rifiuto di aggravare la crisi economica, e a questo punto anche istituzionale, del Paese con il marasma delle elezioni anticipate. Che sarebbero per giunta destinate a svolgersi con questa legge elettorale, con lo stesso numero dei parlamentari di oggi, tutti nominati di nuovo dalle segreterie dei rispettivi partiti, a dispetto dello scandalo che gridano contro questo sistema anche quelli che, sollecitando il ricorso alle urne, muoiono dalla voglia di trarne ancora i frutti avvelenati. E come potrebbe - mi chiederete voi - il capo dello Stato sottrarsi all'assedio dei partiti, o loro vertici, smaniosi di elezioni anticipate, una volta che questi fossero riusciti a sfiduciare il governo Monti, o a sfiancarlo sino alle dimissioni? Rimandandolo semplicemente alle Camere, dove - scommetto quello che volete - si scomporrebbero tutti indistintamente i gruppi parlamentari, e relativi partiti, e il governo ne uscirebbe con una fiducia magari meno ampia di quella dell'autunno scorso, diciamo pure striminzita, ma paradossalmente più convinta e solida. Prevarrebbe quanto meno l'istinto di conservazione di un ceto politico che sa di essere arrivato al capolinea e rifiuta di considerare una reale e preferibile alternativa quella fra il grillismo e il vendolismo. A ciò infatti si ridurrebbe la scelta in caso di elezioni anticipate in autunno, come preferirebbero Fassina e tutti quelli che sotto sotto ne condividono le pulsioni, pur dissentendo a parole. Neutralizzato il centrodestra, la partita se la giocherebbero, come è avvenuto a Parma il 20 maggio, i grillini e una sinistra letteralmente da brividi. Capace di esprimere, nella migliore delle ipotesi, un governo di Pier Luigi Bersani con Nichi Vendola al Ministero dell'Economia e Antonio Di Pietro alla Giustizia.