di Marlowe Ieri Mario Sechi ha toccato il tema centrale dell'Europa di oggi: il contrasto tra democrazia e tecnocrazia.

L'ennesimaconferma è venuta poche ore fa da Corrado Passera, titolare di un ministero che si chiama Sviluppo: «È a rischio» ha detto «la tenuta sociale del Paese». Se un tecnocrate di lungo corso come Passera lancia un allarme simile vuol dire che ci avviciniamo al culmine non solo della crisi economica, ma anche della crisi politica europea. Come ha ricordato Sechi le ultime svolte politiche ai quattro angoli dell'Europa sono tutte accomunate dalla protesta contro il rigorismo tecnocratico teutonico. Protesta che non si leva solo da quello che a Berlino chiamano sprezzantemente il Club Med, come la Grecia e la Spagna, ma anche dal virtuoso Nord, dall'Olanda, e dalla Francia, che affaccerà pure sul Mediterraneo ma ha anche dato origine alla civiltà dei lumi, ai diritti dell'uomo, alla rivoluzione borghese. La ribellione ha una causa più remota, strutturale all'Unione europea, ed una attuale, le modalità con cui i governanti tedeschi piegano le regole ai loro interessi. L'unificazione dell'Europa è nata dalla finanza e lì si è fermata. Esiste qualche altra materia che imponga le stesse ferree discipline? Non c'è un'Europa unica in politica estera, come si è visto dall'Afghanistan alla Libia. Non c'è sui diritti civili: la Spagna ha legalizzato i matrimoni gay, la Polonia ammette l'aborto solo in casi di stupro, incesto, pericolo di vita. Non c'è sulla giustizia. Di fatto l'unità europea si concretizza solo nella Champions League e nel fiscal compact. Si tratta di un vizio di origine grave, al quale la Germania di Angela Merkel ha aggiunto del suo. Una illuminante tabella pubblicata da Le Monde evidenzia come la crisi e l'uso che ne hanno fatto i governanti tedeschi ha finora prodotto 16 cambi di maggioranze politiche su 27 paesi della Ue: Lituania, Ungheria, Gran Bretagna, Olanda, Repubblica Ceca, Irlanda, Finlandia, Portogallo, Danimarca, Italia, Spagna, Slovenia, Slovacchia, Romania, Grecia, Francia. Si potrebbe aggiungere il Belgio, rimasto senza governo per oltre un anno. Tutto ciò potrebbe apparire espressione di democrazia, se non fosse che la maggior parte di questi rovesciamenti sono stati o indotti dalla Germania e dalla tecnocrazia europea, o al contrario ne costituiscono la reazione. L'Italia sta vivendo la prima esperienza. Il nostro è sulla carta l'unico governo tecnico, in realtà non siamo i soli a fare i compiti a casa imposti da Berlino. Al contrario, Francia, Olanda, Grecia, ma anche Danimarca, Irlanda, Ungheria, hanno votato contro l'Europa incarnata dall'assillo rigorista tedesco. Il caso più clamoroso è certamente la vittoria di Francois Hollande, propiziata non poco dall'idea della Merkel di varcare il Reno per fare campagna elettorale a fianco di Nicolas Sarkozy. Mentre sul settimanale tedesco Zeit l'analista Sigmar Gabriel scrive quello che tutti pensano: la Cancelliera ha riportato la Grecia nel caos, spalancando le porte del parlamento di Atene neonazisti e neocomunisti. Il liberale Zeit, 500 mila copie tutte destinate alla classe dirigente, dedica alla Merkel anche un'analisi di politica interna intitolato "Wie lange noch?": traduzione dell'"Usque tandem" che Cicerone rivolse a Catilina. Si parla della probabile sconfitta della Merkel nelle elezioni di domenica prossima nel NordReno-Vestfalia, il più popoloso dei land tedeschi. La conclusione è che la tecnocrazia che la Merkel impone a forza ai partner europei avrà vita più breve in patria, dove ha già fatto nascere il partito dei Pirati, che contesta lo strapotere bancario, e soprattutto ha già perso la maggioranza nel Bundesrat, la camera alta, e rischia tra un anno di giocarsi la cancelleria a favore di socialdemocratici e verdi. Non sarebbe la prima volta che la Germania sacrifica le sue strategie, già improntate a lungimiranza con Adenauer, Kohl e Schroeder, alla visione breve di una tattica espansionista. Ma lo Zeit ha soprattutto il merito di rompere la crosta del verbo tedesco da esportazione: quello di una virtù unica medicina per gli europei «ladri e vagabondi», una linea cara a Der Spiegel. Il settimanale più venduto ha per esempio "rivelato" come l'ingresso dell'Italia nell'euro fu una decisione politica di Helmut Kohl, non avendo noi i conti in ordine. Vero: ma che dire del cambio al quale ci entrammo, tagliato su misura per l'export tedesco? E perché dimenticare che nel 2002 e 2003 la Germania sforò deliberatamente il deficit di bilancio, venendo graziata di una multa di otto miliardi di euro? Ancora. Sechi avanzava il "sospetto" che grazie al terrorismo degli spread la Germania stia finanziando a costo zero il proprio debito pubblico. La risposta è sì: il Bund biennale è sceso al tasso dello 0,06 per cento, quello decennale all'1,5. Largamente al di sotto dell'inflazione, quindi a rendimenti negativi. E quando il mercato non compra tutti i titoli offerti ci pensa la Bundesbank, la banca centrale. Alla cui presidenza la Merkel ha piazzato il proprio consigliere Jens Weidmann, cioè un funzionario del governo. Eppure Berlino proibisce di comprare titoli pubblici alla Bce e predica la separazione tra banche centrali e governi. Perché nel resto d'Europa sì e in Germania no? Traduciamo il tutto in denaro contante, cioè quanto si mettono in tasca aziende e lavoratori tedeschi. Dal 2000 al 2011 l'export è passato da 600 a 1.100 miliardi di euro. La Deutsche Telekom ha concesso aumenti di stipendio del 6,5 per cento, e l'inflessibile ministro delle Finanze Wolfgang Schauble vuole estendere analoghi incrementi agli statali. Nel frattempo le retribuzioni italiane scivolano dal 22mo al 23mo posto nell'Ocse, congelando consumi e risparmi. Certo, noi abbiamo molti difetti. Ma i tedeschi hanno troppe virtù. E ogni volta che accade finisce malissimo.