di Francesco Damato Scomporre e ricomporre partiti, chiuderne di vecchi, o fingere di chiuderli, per crearne di nuovi, immaginari o reali, o alimentare semplicemente un po' di suspense preannunciando novità tanto sensazionali quanto generiche, serv

Dicui tutti si riempiono la bocca nel solito soprassalto retorico della «Carta più bella del mondo», come continua a definirla compiaciuto il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, anche quando riconosce la necessità di cambiarne passaggi importanti. Che tanto belli evidentemente non debbono essere. O non sono più. Si fa presto a dire, come è appunto scritto in quell'articolo della Costituzione, che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Sono parole, con tutto il rispetto per i padri costituenti, e per il dibattito che li portò a formularle nel testo così pomposamente richiamato a destra o a sinistra anche in questi giorni. Parole che dicono tutto e niente nello stesso tempo. Esse stanno ai partiti semplicemente, e banalmente, come abiti ai manichini. I costituenti, reduci nel 1946 da due tragedie come la dittatura e la guerra, riempirono quei manichini delle loro sofferenze e insieme delle loro speranze, o illusioni. Che parvero loro, immersi com'erano nelle ideologie di quei tempi, sufficienti a dare ai partiti un'anima. Ma ora che quelle ideologie non ci sono più, travolte dal loro fallimento o costrette ad un aggiornamento che le ha rese irriconoscibili, ci restano i manichini. Non è bastato a dare un'anima ai partiti, nuovi e vecchi, neppure la loro resa incondizionata, o quasi, ai leader che li hanno creati, o che essi hanno trovato per strada. Adesso che si sono consumate le illusioni o esperienze sia delle ideologie sia dei capi più o meno carismatici, i partiti debbono decidersi a darsi contemporaneamente una identità e quella che si chiama una disciplina giuridica. Della quale, in verità, fu avvertito il bisogno, proprio a causa della genericità dell'articolo 49 della Costituzione, già nei primi anni della Repubblica da esponenti politici consapevoli dei rischi che si potevano correre lasciando le cose nella indeterminatezza: per esempio, da Luigi Sturzo. Che predispose anche un disegno di legge, successivamente ma inutilmente riproposto all'attenzione dei suoi colleghi di partito da Giulio Andreotti. Ma si continuò evidentemente a ritenere che le ideologie, e forse ancora di più le convenienze reciproche, potessero e dovessero bastare, ed avanzare, per mettere le forze politiche al riparo dai pericoli di una loro degenerazione. La mancanza di una disciplina finalmente giuridica dei partiti è anche la causa della loro cattiva gestione economica. Che, già grave di per sé, è diventata insopportabile e scandalosa quando il loro finanziamento è diventato pubblico, garantito direttamente dallo Stato, cioè dai contribuenti. Cui si decise di ricorrere nel 1974 per sottrarli alla pratica delle tangenti, e ai relativi condizionamenti. Ma fu un'illusione perché i partiti, e le loro correnti, che crescevano come funghi anche a causa della facilità con la quale potevano finanziarsi, continuarono ad alimentarsi anche di tangenti, sino ad ingozzarsene. E a cadere nelle tagliole giudiziarie del 1992 e anni successivi. E in quella referendaria del 1993, che su proposta dei radicali, accolta dalla stragrande maggioranza degli elettori, abolì il finanziamento pubblico, visto l'abuso che ne era stato fatto. I cittadini pensarono in quella occasione di avere fatto giustizia, forse meglio e più dei magistrati, che nei loro interventi contro la pratica delle tangenti e, più in generale, del finanziamento illegale della politica, e della corruzione che spesso l'aveva accompagnata, non erano stati proprio imparziali. Erano stati piuttosto selettivi. Agli elettori referendari non fu letteralmente e fortunatamente possibile fare differenze, e sconti. Il finanziamento pubblico fu abolito e basta, per tutti. Ma i partiti, sia quelli vecchi scampati alla mannaia giudiziaria, sia quelli travestiti da nuovi, sia quelli nuovi davvero, in uno stomachevole abbraccio consentito proprio dalla loro natura ambigua, sprovvisti di una precisa e vincolante disciplina giuridica, si misero letteralmente il referendum sotto i piedi e si ripresero il finanziamento pubblico chiamandolo «ipocritamente», come adesso ammettono tutti i loro cosiddetti dirigenti, «rimborsi elettorali». Per giunta forfettari. E aumentandone via via la consistenza, anche a beneficio di partiti che cadevano in sonno o chiudevano bottega, lasciando però all'opera i loro tesorieri ingordi, pronti a rubare per sé e forse anche per altri, come rischia di emergere dalle indagini in corso sui «rimborsi» delle ex Margherita di Francesco Rutelli, e da quelle che riguardano la Lega. Della quale solo la disinvoltura di Umberto Bossi e del suo aspirante successore Roberto Maroni poteva arrivare ieri a dire che «è l'unico punto fermo del panorama politico italiano». Fermo, anzi fermissimo, come un paracarro nel fango.