Vertice senza risultati. Lo spread vince ancora

Leggendo le considerazioni quasi romantiche, l'immagine del procedere assieme, con Francia e Germania, «mano nella mano», ho supposto che il pranzo parigino, fra il capo del nostro e del loro governo, Mario Monti e Francois. Suggestiva e toccante tanta ipotetica fratellanza, ma anche terribilmente in contrasto con quel che è successo fin qui. È vero che nelle storie d'amore può capitare s'alterni la violenza all'attrazione fisica, ma posto che neanche in quel caso è una bella cosa, qui siamo in tre. I conti non tornano. In realtà, a leggere con attenzione le parole conclusive, di rose e fiori ce ne sono pochi. Domina la preoccupazione e, come c'è già capitato in occasione del Consiglio europeo dello scorso 8 dicembre, nel mentre tutti tingeranno di rosa quel che è fosco, ci prendiamo il diritto di sintetizzare quel che è accaduto: un fallimento. Non il primo, purtroppo. E manca il tempo per provare e riprovare. Monti ha parlato d'intesa «totale», fra Francia e Italia, sia sui temi bilaterali che sul modo di costruire l'Europa e come governarla. Fillon ha detto che c'è un'identità di vedute «quasi totale». A preoccupare non è quel «quasi», che fa la differenza, ma l'assenza di contenuti reali e concreti. La domanda è: la Francia ha capito che l'asse con la Germania non solo affossa l'Europa, ma finirà con il nuocere anche agli interessi francesi, talché cerca sponde per svincolarsi? Non pare proprio che questa sia la conclusione. Monti s'è sì inserito fra i due, ma per essere tenuto per mano. Ciò vuol dire che Francia e Italia sono riuscite a convincere la Germania che il monetarismo ottuso non solo farà esplodere l'Unione, ma finirà con il nuocere anche agli interessi tedeschi? Neanche questo si può dire. Anzi, mi pare più che lecito dire il contrario. E allora? Allora siamo dove eravamo. Colpo a vuoto. Un fallimento. Di questa consapevolezza si trova traccia nelle parole di Monti, il quale fa fatica a conciliare i due interessi cui è legato: quello dell'Italia e quello dell'Unione. Da commissario europeo la cosa era facile, perché uno s'identificava con l'altro. Ma ora è diverso, e la natura tecnica del suo governo, chiamato a commissariare la politica nella speranza di risolvere quella contraddizione e cercare di tornare all'unità, alla fusione dei due interessi, rende più complicata la situazione. Perché le scelte da compiersi non sono affatto tecniche, ma schiettamente politiche. Monti lo sa e, difatti, usa parole che, uscite dalla sua bocca, devono essere valutate con cura, non scambiate come il parlare senza pensare di tanti altri: occorre fare attenzione, perché se gli sforzi europei dovessero fallire, se la crisi e gli attacchi speculativi ai debiti sovrani dovessero divaricare le posizioni dei diversi stati, allora quello stesso disegno europeo che è nato per unire sarà causa di forti risentimenti e pregiudizi, finendo con il dividere in modo brutale. Il rischio è reale, concreto. Pensare di esorcizzarlo evocando l'immagine di un procedere «mano nella mano» è generoso, ma irrilevante. Non ho mai considerato lo spread, quel numero che simbolizza la distanza fra il tasso d'interesse che paghiamo per finanziare il debito pubblico e quello che pagano i tedeschi, un indicatore della nostra buona salute, dell'affidabilità del nostro debito o del successo governativo. Anzi, per certi aspetti trovo comica la spread-mania. Non cambiando opinione a seconda delle stagioni e dei governi, e avendo nuotato contro corrente quando quel numero era considerato ragione buona per licenziare chi prese i voti del popolo (che s'era esaurito prima, cumulando ben altri insuccessi, ma questo è altro discorso), posso permettermi di osservare che la media dello spread nei due mesi di governo Monti è superiore a quella degli ultimi due mesi di Berlusconi, i peggiori. L'idea che il cambio di governo avrebbe placato i mercati era stupida e s'è rivelata una stupidata. Non vedo perché non si debba dirlo e prenderne atto, senza per questo avviare un'inutile recriminazione su chi già si trovava nella condizione di un altro cavaliere: «così colui, del corpo non accorto, andava combattendo ed era morto». Ma il problema resta, e la giornata di ieri lo dimostra: nel mentre la Senna salutava l'ipotesi del procedere in concordia i mercati valutavano la non consistenza dell'oggetto su cui concordare, sicché lo spread nostro volgeva gli occhi alle stelle. Non m'appassiona seguire lo «spread minuto per minuto», giacché stare a 535 o a 520, o a 500, non fa una così radicale differenza, dato che siamo comunque ben oltre il sostenibile. Almeno non si voglia continuare a lavorare e tassarci solo per onorare gli umori del «dio spread», novello fantoccio tribale di un'Europa che non funziona. Concordo con quel che ha detto Monti: «La crisi ha evidenziato le debolezze dell'Europa. Lo squilibrio aggregato dell'Eurozona, in termini di finanza pubblica, non è particolarmente accentuato. Anche Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno un debito pubblico più pronunciato, ma l'Ue ha degli squilibri al suo interno». È così. Dissento, invece, da quel che ha aggiunto subito dopo: «L'Europa si è dimostrata più debole di quanto pensavamo che fosse e questo in particolare per le difficoltà a fare fronte ad una crisi che non riguarda l'euro ma riguarda gli aspetti finanziari e di bilancio pubblico di alcuni Paesi». No, la crisi riguarda l'euro, le sue deficienze strutturali, nelle quali si riflettono le gravissime debolezze istituzionali dell'Unione. La crisi della moneta unica si nutre dei debiti sovrani, ma non sono quelli la causa. Il giro europeo di Monti continua, ma il debutto francese doveva servire a trovare forza per le altre tappe. Non è andata così. La maledizione con cui fare i conti è tutta politica: in Francia si vota, per le presidenziali, ad aprile, dopo di che saranno vicine le elezioni tedesche del 2013. Cicli elettorali asincroni e continui rendono difficilissimo governare la crisi, favorendo il divorzio fra Ue e democrazia, declassando eletti ed elettori. Occorrerebbe reagire in modo collegiale, rilanciando quel che c'è delle istituzioni. Le relazioni bilaterali, ove anche diventino ménage à trois, non rimediano affatto. E, lo ripeto, il tempo non c'è.