Il presidenzialismo e "Re Giorgio"

Senza voler togliere nulla al primo sì pronunciato quasi all'unanimità ieri dai deputati alla modifica dell'articolo 81, per introdurvi l'obbligo del pareggio di bilancio, utile anche a migliorare l'immagine del Paese all'estero nel pieno di una crisi economica e finanziaria, ancora più importante è ciò che il presidente della Repubblica in occasione dell'ultima crisi di governo ha saputo e voluto ricavare dalla Costituzione. Della quale, visto proprio ciò che il capo dello Stato è riuscito a fare, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani sarà paradossalmente indotto a ripetere ciò che più volte gli è stato contestato anche da noi, qui a Il Tempo, ma parlando di altri aspetti: che cioè la nostra è «la Costituzione più bella del mondo». Che tutti ci invidierebbero, per cui sbaglierebbero quanti ne sollecitano un'ampia riforma per aggiornarla ai tempi o ritmi nuovi, così diversi dall'ormai lontano 1947, quando i 139 articoli e le 18 disposizioni transitorie e finali della carta costituzionale furono approvate per entrare in vigore il 1° gennaio 1948. A Giorgio Napolitano, per nostra fortuna, i suoi ex compagni di partito, spossati da una crisi d'identità superiore allo stesso logoramento della Costituzione, hanno permesso ciò che probabilmente non avrebbero tollerato da un presidente della Repubblica di diversa estrazione politica. Provate ad immaginare, per favore, che cosa gli ex o post-comunisti avrebbero detto di un capo dello Stato proveniente dal centrodestra che per circa un anno avesse difeso il diritto di Silvio Berlusconi di resistere all'assottigliamento della propria maggioranza, dopo la rottura con il presidente della Camera Gianfranco Fini. O ancora, di un capo dello Stato proveniente dal centrodestra che avesse sostanzialmente obbligato le opposizioni di centrosinistra e il nuovo partito di Fini, come accadde l'anno scorso, a sospendere la loro offensiva contro il governo per mettere al sicuro l'approvazione della legge finanziaria. Passata la quale, naufragò la mozione di sfiducia. O ancora, di un capo dello Stato proveniente dal centrodestra che, una volta arrivati alla crisi ministeriale, non condividendo l'urgenza delle elezioni anticipate istintivamente avvertita in entrambi i partiti maggiori, ma anche altrove, avesse messo in cantiere un governo così straordinario, così anomalo, così speciale come quello tecnico di Mario Monti. La «trasparenza» di questo governo, vantata dallo stesso Monti, veniva ieri tradotta dal Corriere della Sera, con una felice vignetta di Giannelli, in una specie di fantasma del presidente del Consiglio proiettato sulla facciata del Quirinale. Gli faceva compagnia un editoriale del professore Ernesto Galli della Loggia che suggeriva in pratica di provare a dare un abito costituzionale più definito e certo al presidenzialismo realizzato di fatto da Napolitano. Che veniva ritratto con chiarezza dal vignettista sul balcone del Quirinale, con tanto di corazziere schierato davanti al portone sottostante. Questo ed altri appelli tra l'accademico e il giornalistico saranno probabilmente disattesi, come le aperture o campagne per il presidenzialismo condotte in passato, tra incomprensioni e demonizzazioni, in ordine rigorosamente cronologico, da Randolfo Pacciardi, Bettino Craxi e Francesco Cossiga. Che dal Quirinale vi dedicò nel 1991, a meno di un anno dalla scadenza del suo mandato, anche un messaggio che stentò di arrivare alle Camere con la necessaria controfirma del governo in carica. Ne fu incaricato in extremis da uno scettico presidente del Consiglio, che era Andreotti, il ministro della Giustizia Martelli. Che al povero e incredulo Cossiga apparve non a torto come un notaio travestito da guardasigilli, o viceversa, chiamato solo ad autenticare la firma del capo dello Stato. Ma, diversamente da quei tempi, il presidenzialismo questa volta si è affacciato e concretizzato davvero sulla scena politica. E forse non se ne potrà più prescindere, anche a Costituzione invariata.