La lettera "adottabile" ora c’è

Dimmi come reagiscono gli altri e ti dirò quanto vale la tua proposta. E allora: i capi di Stato e di governo di tutti i Paesi europei hanno condiviso soddisfatti, le borse e i mercati hanno mostrato euforia a caldo. Soltanto in Italia la lettera d'intenti che il governo di Roma ha portato e presentato a Bruxelles è stata giudicata dal buco della serratura, con una parte dell'opposizione e del mondo sindacale pronta a salire sulle barricate per l'introdotta novità del supposto licenziamento facile. Ma è l’unico e ultimo pretesto ideologico che sventola nei confronti di un piano economico che può rappresentare una svolta nella politica italiana. D’accordo, una svolta tardiva, raggiunta al novantesimo e soltanto perché l’esigeva l’Unione di cui siamo soci fondatori: quelle diciassette pagine firmate dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, dovevano essere scritte molto tempo prima, a prescindere dalle pretese ultimative e dai sorrisi irridenti dei nostri alleati continentali. Ma adesso quelle parole sono nero su bianco e costituiscono un punto di non ritorno. D’ora in poi i governi di oggi e di domani saranno chiamati non solo a realizzare in concreto i nuovi principi indicati, ma a farlo con coerenza e continuità istituzionale. È come se l’Italia avesse contratto un imperativo categorico con l’Europa nell’evidente interesse di se stessa, prima ancora che della quiete finanziaria e monetaria altrui. È come se il risanamento dei conti pubblici e la nostra crescita fossero vincolati al più generale sviluppo europeo. Per giorni si era dibattuto se un’altra lettera, quella sgradevole e perentoria che la Banca centrale europea aveva inviato al governo italiano, potesse essere condivisa da tutti, maggioranza e opposizione, per le ricette utili che conteneva, e che erano frutto di idee da tempo circolanti in Italia. La Bce scopriva l’acqua calda, ma la colpa era nostra: ci siamo fatti bacchettare per provvedimenti politico-economici promessi per anni, però mai attuati. Economisti e giuristi sono arrivati a chiedere al centro-destra e al centro-sinistra di adottare le richieste-Bce come piattaforma comune della prossima e non lontana campagna elettorale. Una scommessa improponibile, perché governare spetta alla politica, non alle banche. Ma adesso la vera lettera «adottabile» c’è, adesso esiste la lettera-spartiacque tra riformismo e populismo, fra quanti vorrebbero scuotere l’immobilismo strutturale del sistema italiano e quanti s’attardano nella difesa corporativa di privilegi anacronistici e iniqui. Adesso c’è un «programma di governo» che può essere fatto proprio da qualunque polo politico, se l’intento è quello di cambiare l’Italia. E sorprende, o forse no, che chi avversa il piano economico ne prenda di mira solo un aspetto, travisandolo: l’ipotesi dei licenziamenti più facili. Un’ipotesi che riguarda solamente il sette per cento delle aziende italiane, visto che l’enorme 93 è formato da imprese con meno di quindici dipendenti, e perciò già oggi la legge consente loro il licenziamento del dipendente con un’indennità. Inoltre, di questo sette per cento l’ipotesi prospettata in Europa penderebbe solo sulle aziende in crisi, lasciando impregiudicata la possibilità di reimpiegare altrove il personale mandato a casa. E di aiutarlo con sussidi pubblici per un periodo ragionevole, finché non avrà trovato un nuovo lavoro. La polemica, si sa, cova sempre sotto la cenere. Ma per chi fa politica, la sfida non può essere di picconare in modo strumentale l’inesistente, ma di dare seguito con buonsenso e lungimiranza alla rivoluzione italiana che è stata appena «annunciata».