La strategia urlata di Di Pietro

È inutile, e alquanto ipocrita, lamentarsi dell’arroccamento di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi se si continua dall’opposizione politica e mediatica a reclamarne le dimissioni con motivazioni e linguaggi provocatori. Se non irresponsabili, come nel caso di Antonio Di Pietro. Che ha chiesto ieri la crisi «prima che ci scappi il morto» nelle piazze, non rendendosi forte conto - speriamo - che così egli finisce per incitare i malintenzionati ad abusare del diritto di protesta per arrivare all'incidente.   Eppure Di Pietro prima di fare il politico e il magistrato è stato, fra l’altro, un poliziotto. Anzi, un dirigente di Polizia. E come tale dovrebbe avere delle piazze e dintorni, e dei loro rischi, una certa conoscenza. O si deve sospettare che gli piaccia giocare con il fuoco come o peggio di un piromane? Si trattenga adesso, per cortesia, dalla solita tentazione di sporgere querela, e di contribuire ad intasare il lavoro dei tribunali allungando l’elenco delle sue cause a giornali e giornalisti. Qui stiamo facendo polemica rigorosamente politica, peraltro senza strabuzzare gli occhi, farci gonfiare le vene, perdere il controllo dei congiuntivi e pasticciare con aggettivi, sostantivi, avverbi e quant’altro, come spesso capita a lui. Che simpaticamente lo riconosce ammettendo di parlare "dipietrese", più che italiano, quando va su di giri. "Tonino", come lo chiamano gli amici, ce lo siamo del resto trovati felicemente a fianco, noi a Il Tempo, proprio di recente nella sacrosanta lotta alle inutilissime e costosissime province. Penso pertanto che sia forse ancora possibile invitarlo da queste pagine a contenersi in una lotta senza quartiere, direi ossessiva, al Cavaliere. Nei cui riguardi, peraltro, solo qualche mese fa, all’indomani dei referendum vinti sull’acqua, sul nucleare e sul già declinante "legittimo impedimento" processuale del presidente del Consiglio, egli aveva promesso di cambiare tono o registro come oppositore, sino ad attardarsi con lui a parlare amichevolmente nell'aula della Camera, anche a costo di procurare a Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini e compagni un mezzo travaso di bile.   Piuttosto, sarebbe auspicabile che Di Pietro impiegasse le sue inesauribili energie oratorie e mimiche, e la sua competenza giudiziaria, per invitare gli ex colleghi pubblici ministeri in servizio a Napoli a non insistere nei tentativi di resistenza all'ordinanza del giudice di mollare per incompetenza territoriale le indagini sull’affare Tarantini-Lavitola, e trasferire gli atti a Roma. Come, del resto, il capo della Procura vesuviana aveva mostrato in un primo tempo di essere deciso a fare, sino a quando evidentemente qualcuno non gli ha tirato la giacca, temendo forse che i magistrati della Capitale accertino la irregolarità di alcune stranissime intercettazioni effettuate sulle utenze telefoniche del presidente del Consiglio. Che sono servite sinora più a sputtanarlo sui giornali che a tutelarlo come parte lesa di un ricatto, o a trasformarlo da parte lesa a indagato, come si aspettavano e si aspettano ancora i suoi avversari. Più a Napoli quei magistrati resisteranno nella loro anomala trincea per alimentare la leggenda di un presidente del Consiglio renitente ai suoi obblighi di "testimoniare", più Berlusconi avrà ragione a diffidarne. E a mandare a quel paese quanti gli chiedono il famoso passo indietro, con le cattive o con le buone, come se lui fosse non una parte lesa, non un testimone, ma un imputato condannato in via definitiva. Non si capisce, poi, di quale reato in particolare.