Finalmente vanno in vacanza

Mai le vacanze dei politici sono forse apparse così immeritate all'opinione pubblica, esterrefatta nel vederli partire per le ferie dopo avere in tutta fretta approvato una stangata dalla quale sono stati risparmiati, con i soliti rinvii e le altrettanto solite promesse da marinaio, i loro altissimi costi. Ma mai vacanze sono forse arrivate così opportune per interrompere, o quanto meno rallentare, un dibattito politico così ipocrita e insulso come quello che abbiamo dovuto registrare e interpretare in queste settimane. Vi confesso che ho temuto per la tenuta del mio sistema nervoso, qualche mattina fa, nel sentire proporre in televisione dal vice segretario del Pd Enrico Letta, peraltro a confronto anche con il nostro direttore Mario Sechi, una rinuncia alla sospensione estiva dei lavori parlamentari, essendo tanti i problemi aperti e tanto urgente la loro soluzione. Se sperava di conquistarsi così l'ammirazione degli ascoltatori, non ci è proprio riuscito con tipi come me il numero due del maggiore partito d'opposizione, o numero tre, dopo il segretario Pier Luigi Bersani e la sempre più presente e straripante presidentessa Rosy Bindi. Andreottianamente portato a pensare male nella convinzione di indovinare, ho visto in tanta, e fortunatamente vana, voglia di continuare a tenere le Camere aperte solo, o soprattutto, la smania di ripetere presto con l'ormai ex braccio destro del ministro Giulio Tremonti, il deputato Marco Milanese, sotto richiesta di arresto da parte della magistratura napoletana, l'operazione appena condotta contro Alfonso Papa, anche lui del Pdl. Sapete perché mi è venuto questo magari insano sospetto? Perché Enrico Letta si era appena prodigato quella mattina a sottolineare il significato politico, propedeutico ad alleanze di ben più vasta e duratura portata, della convergenza creatasi nell'aula di Montecitorio fra il suo partito, l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e il cosiddetto terzo polo di Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini ed altri per fare scattare le manette ai polsi di Papa. Che è finito però a Poggioreale soprattutto per i voti ostentati contro di lui, per quanto a scrutinio formalmente segreto, dai deputati leghisti più vicini al ministro dell'Interno Roberto Maroni. Il quale, guarda caso, si è poi guadagnato da parte di Fini- non si è capito bene se in veste più di presidente della Camera o di leader di riferimento del partito "Futuro e Libertà" o di numero due di Casini, o tre dopo il senatore Francesco Rutelli- la quasi designazione a Palazzo Chigi per un nuovo governo ben visto, o tollerato, da tutta o parte dell'opposizione. In verità, dal Pd si sono prontamente levate voci di forte dissenso da questa apertura, a cominciare dalla solita Bindi, notoriamente "indisponibile", per citare una sua famosa espressione televisiva, al Cavaliere e a tutti quelli che hanno avuto la ventura di collaborare con lui, come per forza di cose ha dovuto fare e fa uno che è il suo ministro dell'Interno. Ma il vice di Bersani si è ugualmente lasciato scappare una strizzatina d'occhio a Maroni dicendo che "qualunque governo sarebbe migliore di quello in carica". Alla Bindi spetta comunque l'oscar della disinvoltura istituzionale, tanto più grave considerando il suo ruolo anche di vice presidente della Camera, per avere auspicato più volte in questi giorni, testualmente, "un governo del Presidente della Repubblica". Immagino che il primo a saltare sulla sedia sia stato, di fronte a tanta enormità, il povero Giorgio Napolitano. Il quale da tempo esorta inutilmente certi scalmanati in adorazione sua e delle sue frequenti esternazioni, a non tirargli la giacca, o almeno a non tirargliela troppo, sino a strapparla. A non usare cioè i suoi appelli alla concordia nazionale e alle larghe intese, e anche i suoi moniti e le sue critiche al governo in carica, o ad alcuni ministri, com'è appena accaduto a causa di quegli strani uffici di rappresentanza cosiddetta operativa aperti nella villa reale di Monza, per coinvolgerlo in operazioni politiche che non possono riguardarlo, essendo lui il primo a dovere rispettare e garantire la maggioranza parlamentare che c'è. Egli non è Vittorio Emanuele III, e neppure Umberto II, a parte una impressionante somiglianza fisica con la buonanima del secondo. E Berlusconi, a dispetto di chi sogna il Dino Grandi del 2011, senza tight e in calzoni corti, non è Mussolini. Qualcuno, per favore, si decida a spiegare alla Bindi, dentro e fuori il Pd, magari in un corso accelerato di diritto costituzionale, anche sotto l'ombrellone o in una baita, che il governo del Presidente della Repubblica o è una banalità o non esiste. E' una banalità se inteso come governo nominato dal capo dello Stato perché lo sono tutti per via dell'articolo 92 della Costituzione, anche ora che il presidente del Consiglio e la sua maggioranza vengono scelti direttamente dagli elettori. Il governo del presidente della Repubblica inteso come imposto, nella forma o nella sostanza, dal capo dello Stato a partiti o a Camere recalcitranti, non esiste invece in natura per il carattere parlamentare del nostro sistema. Ne sarebbe la sua più clamorosa violazione. Pur se in dottrina si cerca sconvenientemente di coltivarne l'embrione con cervellotiche interpretazioni di alcuni casi, nati però anch'essi, per chi ha buona memoria, nei recinti dei partiti di maggioranza di turno. Penso ai governi di Giuliano Amato nel 1992, di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, di Lamberto Dini nel 1995, o di Giuseppe Pella nel 1953, quando la Bindi aveva solo due anni, o di Fernando Tambroni nel 1960. Un precedente peraltro, quest'ultimo, al quale una come la Bindi dovrebbe semplicemente inorridire per l'epilogo che lo segnò nelle piazze.