Al Pdl è mancata la passione

Hanno un bel dire che non se lo aspettavano e soprattutto nelle proporzioni esagerate di fronte alle quali sembrano pugili suonati. I dirigenti del Pdl napoletano e campano avrebbero dovuto avere almeno la presenza di spirito di analizzare la sconfitta ampiamente annunciata, proprio nelle dimensioni che ha assunto, ammettendo responsabilità indiscutibili nel non aver saputo condurre una campagna elettorale che esigeva ben altro atteggiamento piuttosto che quello approssimativo e, diciamolo pure, elitario che l'ha caratterizzata. La stupefacente vittoria di Luigi De Magistris non è figlia delle alchimie partitiche a cui Napoli è sempre stata, per propria natura sempre poco sensibile, bensì del disagio interpretato dall'ultimo epigono di una tradizione, buona o cattiva che sia, di un populismo che è parte della natura dei napoletani i quali nel passato lo hanno incarnato nel laurismo e nel bassolinismo. Non ci voleva molto, insomma, a rendersi conto che con i compromessi al ribasso non si sarebbero suscitati gli entusiasmi necessari per far voltare pagina ad una città che ha dimostrato di rifiutare i poteri forti, e magari si accorgerà più in là che il nuovo sindaco ne è parte integrante poiché senza l'appoggio degli apparati industriali, dei giornali cittadini, dei beneficiari di Bassolino probabilmente il suo risultato non sarebbe stato tanto clamoroso. Ma accanto a tutto ciò c'è la gente di Napoli, i ragazzi disoccupati dei bassi, una certa borghesia impiegatizia che hanno voluto provare, come è spesso successo nella storia della città, a cambiare. E questo sentimento, tradito, lo avevano trasmesso alle gerarchie locali del centrodestra che si sono incaponite dapprima su una candidatura che non tirava (non pochi esponenti napoletani glielo avevano detto a Berlusconi e a Cosentino che Lettieri non sarebbe stato un cavallo vincente) e poi nell'orchestrare una competizione fatta di promesse alle quali in pochi hanno creduto. Dopo che tre anni fa, Napoli diede un consenso plebiscitario al Cavaliere, gli elettori - a cominciare da quelli del Pdl - si attendevano maggiori attenzioni. Invece, niente. L'immondizia è ancora là, per quanto il governo sia intervenuto due volte a rimuoverla; la disoccupazione è cresciuta; la povertà pure; l'insicurezza domina sovrana: ieri, ironia macabra, è morto in conseguenza di uno scippo un turista. Soprattutto è mancato il centrodestra non come apparato, ma come movimento di rinascita di Napoli. Dove sono stati i progetti, le suggestioni, le passioni che ci si aspettava dovessero essere messi in campo dalla classe dirigente locale per fare di Napoli l'ambizioso polo di irradiazione culturale e commerciale nel Mediterraneo, una città finalmente viva? È prevalso il piccolo cabotaggio. Lotte intestine e politicamente cruente hanno segnato la stagione pre-elettorale dello scorso anno, per fortuna vinta da Caldoro; invidie e rancori si sono sedimentati al punto di allontanare non pochi elementi di sicuro affidamento; gli intellettuali, i professionisti, gli imprenditori si sono sentiti esclusi da un progetto soltanto vagheggiato e si sono rassegnati. Poi è spuntato l'astro di De Magistris e nel Golfo ha preso corpo un'altra sagoma di speranza popolare. Il candidato a Palazzo San Giacomo non aveva nulla da perdere; il Pd aveva già perso tutto; il solo che poteva guadagnare dalla situazione venutasi a creare era il centrodestra che però aveva dimenticato di preparare il suo sbarco al Comune con i mezzi d'assalto necessari, in primo luogo coinvolgendo la gente e quindi mettendo in campo le idee che non si riassumo in un banale programmino elettorale. Il resto è cronaca delle ultime ore. Compresi i balbettii di politicanti che dovrebbero andarsi a riporre eppure pronti a giustificarsi dicendo che proprio non se l'aspettavano. Neppure De Magistris se lo aspettava. Perciò ha vinto. E ha vinto bene. Anzi, ha stravinto.